lunedì 1 dicembre 2025

RIFLESSIONI DI UN POVERO PRETE MISSIONARIO

 




Paolo Cugini

 

 

Ieri sera – domenica 30 novembre 2025 – celebrazione di 74 cresime tra giovani e adulti. Non avevo mai visto tante persone emozionarsi nel momento della cresima. Non si tratta di sentimentalismo, ma di qualcosa di profondo, un sentimento religioso che sconvolge l’animo. Il Vescovo Hudson è stato molto bravo a dialogare con i giovani durante l’omelia. C’era un bel clima spirituale e umano. Ieri sera avevo la sensazione di conoscere questi ragazzi, ragazze, adulti che si avvicinavano all’altare per ricevere il sacramento, C’erano anche coppie disposi, che si sono cresimati nello stesso giorno del loro figlio più grande. C’erano anche signori di 50 anni, che si sono decisi di fare il passo importante. Lacrime di uomini e donne nel momento in cui il Vescovo Hudson unge le loro teste e dialoga con loro. Singhiozzi, difficoltà a pronunciare alcune sillabe: c’è tanto amore in tutto questo, tanta percezione di far parte di un progetto più grande che non si riduce alla sola materia, ai soldi, alle cose di tutti i giorni. Lacrime e singhiozzi che rivelano qualcosa di autentico, un sentimento profondo di vita e che, allo stesso tempo, rivela l’autenticità di un gesto. Il dato interessante, che conferma quello che sto scrivendo, è che la maggior parte dei giovani e degli adulti che ieri sera hanno ricevuto il sacramento della cresima, sono già inseriti nei gruppi giovani delle comunità o nei servizi pastorali. Lo stesso vale per i padrini e le madrine: quasi tutti e tutte sono leader di comunità.

Altro dato importante. Le prime cresime vissute direttamente in questa parrocchia, sono avvenute un mese dopo della mia entrata ufficiale come parroco e cioè due anni fa. All’inizio di dicembre del 2023 furono cresimati quasi cento giovani. Ebbene, ieri sera erano quasi tutti presenti alla celebrazione eucaristica. Chi non c’era era perché ha cambiato quartiere o era al lavoro. Dalle cresime di due anni fa è sorto il cammino della pastorale giovanile della parrocchia, che ora conta con un gruppo giovani in ogni comunità.  Ieri sera, al momento degli avvisi, tre giovani che si sono cresimati due anni fa, hanno invitato i giovani lì presenti freschi di cresima a partecipare dell’Assemblea dei giovani che avverrà il 14 dicembre. Mentre parlavano gli hanno comunicato che la cresima è il punto alto di un cammino che manifesta il desiderio di appartenere ad una comunità (è stato il tema dell’omelia del Vescovo Hudson), alla Chiesa e loro gli hanno spiegato quel’è il loro posto nella chiesa oggi: nei gruppi giovanili delle comunità. Come parroco sento tutta la pienezza di un cammino pastorale che ha un senso, che costruisce qualcosa di nuovo che sa di Vangelo, di vita nuova, in cui si percepisce la presenza di Gesù.

Queste sensazioni non le ho mai avute negli anni trascorsi a Reggio Emilia dove, in ogni celebrazione di Cresima, venivo invaso da sensazioni di vuoto assoluto, che creavano frustrazione, crisi del ministero, conati di vomito, volontà di scappare via. Non solo i cresimati svolgevano l’ultimo atto di un cammino che per la stragrande maggioranza sarebbe terminato lì, ma scandalosa era la presenza dei così detti padrini e madrine impresentabili, con nessun legame con il cammino della Chiesa. Una farsa. Una grandissima pagliacciata, alla quale noi preti non riusciamo a sottrarci, per la paura del linciaggio pubblico, delle tirate d’orecchio da parte dei nostri superiori o altre cose peggiori, innominabili.



Dopo la celebrazione di ieri sera il malessere spirituale nei confronti del cammino ecclesiale italiano è aumentato ad un livello esponenziale. Non so che medicine prendere, non so che fare, cosa pensare. Mi godo il presente che il Signore mi sta concedendo, senza pensare al futuro, ma con i piedi ben piantati per terra, cercando di cogliere quello che il Mistero rivelato in Gesù vuole dirmi, senza correre troppo nelle interpretazioni immediate, che sono pericolosamente esaltanti.

 

domenica 30 novembre 2025

LA FECONDITÁ DELL’ERESIA

 




Paolo Cugini

 

 

 

La parola "eresia" evoca spesso immagini di roghi, persecuzioni e condanne. Tradizionalmente, il termine è stato associato a deviazioni dalla dottrina ufficiale, un marchio di infamia da evitare a ogni costo. Tuttavia, se osserviamo la storia delle idee con uno sguardo meno dogmatico e più aperto, emerge una verità inaspettata: l’eresia, lungi dall’essere solo distruttiva, si rivela spesso straordinariamente feconda. Essa agisce come motore di cambiamento, stimolo alla riflessione, e talvolta come seme di nuove visioni del mondo.

Il pensiero umano si è sempre sviluppato attraverso il confronto tra ciò che è considerato vero e ciò che viene ritenuto deviante. L’ortodossia, per sua natura, tende a cristallizzare il sapere; l’eresia, invece, lo mette in discussione, lo provoca, lo costringe a difendersi. È in questa dialettica che spesso nascono le idee più innovative. Senza il pungolo dell’eresia, molte dottrine sarebbero rimaste immobili, incapaci di adattarsi alle nuove esigenze e domande della società. Ancora. Senza l’eresia probabilmente non ci sarebbe stata una dogmatica.

La storia della filosofia e della teologia è costellata di figure che, accusate di eresia, hanno poi influenzato profondamente il pensiero occidentale. Si pensi a Giordano Bruno, che, sfidando le concezioni cosmologiche del suo tempo, aprì la strada a una visione dell’universo infinitamente più ampia. O ancora a Galileo Galilei, la cui eresia scientifica pose le basi per la rivoluzione scientifica moderna. In campo religioso, le eresie medievali come quella dei catari o dei valdesi, pur represse con durezza, contribuirono a una maggiore articolazione del dibattito spirituale e sociale.

Non meno importante è il ruolo dell’eresia nell’arte e nella letteratura. Spesso, gli artisti e gli scrittori che hanno osato sfidare i canoni e le regole del loro tempo sono stati inizialmente accusati di eresia estetica o morale, ma proprio questa capacità di andare controcorrente ha portato a nuovi stili, generi e movimenti. Dante Alighieri, con la sua visione personale dell’aldilà, o Caravaggio, con il suo rivoluzionario uso della luce, sono esempi di come l’eresia possa essere fonte di rinnovamento creativo.

L’eresia non riguarda solo le idee religiose o artistiche, ma anche i modelli sociali. Movimenti che inizialmente venivano considerati eretici, come l’abolizionismo, il femminismo o le prime rivendicazioni per i diritti civili, hanno contribuito a trasformare radicalmente la società. Se è vero che l’eresia può minacciare l’ordine costituito, è altrettanto vero che costituisce una preziosa opportunità di crescita e di evoluzione. La sua fecondità risiede proprio nella capacità di rompere gli schemi, di proporre alternative, di stimolare il pensiero critico. In un mondo che cambia rapidamente, la tentazione di irrigidirsi sulle proprie certezze è grande, ma la storia insegna che solo chi sa ascoltare le voci eretiche è in grado di rinnovarsi. In fondo, come diceva il poeta: Non c’è innovazione senza eresia.

 

martedì 25 novembre 2025

PUNTI FERMI DI UMA TEOLOGIA SOVVERSIVA

 




 

Paolo Cugini

 

 

In un’epoca segnata da profondi cambiamenti sociali, culturali ed economici, la teologia è chiamata a interrogarsi sul proprio ruolo e sulla propria capacità di incidere nella realtà. In questo contesto nasce e si sviluppa la cosiddetta “teologia sovversiva”, una corrente di pensiero che non si limita a interpretare il mondo, ma mira a trasformarlo, ponendosi come voce critica nei confronti delle ingiustizie, delle disuguaglianze e delle strutture oppressive. Ma quali sono i punti fermi di una teologia sovversiva? Quali principi la animano e la rendono attuale?

Il primo pilastro di una teologia sovversiva è la ricerca instancabile della giustizia. Questa teologia assume come criterio fondamentale il grido degli oppressi, ponendo al centro l’esperienza di chi è escluso, marginalizzato o sfruttato. Non si tratta solo di una giustizia astratta, ma di una giustizia concreta, che si traduce in impegno attivo per la liberazione dei poveri e degli emarginati, in linea con la tradizione profetica biblica e con la pratica di Gesù di Nazareth. Una teologia sovversiva riconosce nei poveri e nei deboli il volto stesso di Dio. L’opzione preferenziale per i poveri non è solo una scelta etica, ma una chiave interpretativa della rivelazione divina. In questo senso, ogni discorso teologico che non tiene conto delle sofferenze e delle speranze dei popoli oppressi rischia di essere vuoto e autoreferenziale.

La teologia sovversiva si distingue per una critica radicale alle strutture di potere che generano e perpetuano l’ingiustizia. Essa denuncia le connivenze tra religione e potere politico o economico, e invita le comunità di fede a prendere posizione contro ogni forma di idolatria del potere, del denaro e del successo. In questo senso, risuona attuale il monito evangelico: “Non potete servire Dio e la ricchezza”.

Questa teologia si nutre del dialogo con le altre discipline, le altre culture e le altre religioni. L’approccio sovversivo rifiuta ogni forma di dogmatismo e si apre al confronto, consapevole che la verità non è proprietà esclusiva di nessuno, ma si costruisce nella relazione, nell’ascolto e nella condivisione. In questo senso, la teologia sovversiva si fa anche autocritica, pronta a riconoscere i propri limiti e a lasciarsi interpellare dall’alterità, aprendosi, in questo modo, ad ogni forma di contaminazione.

La teologia sovversiva non si limita alla riflessione teorica, ma si traduce in prassi. “Fede senza opere è morta”, recita la Lettera di Giacomo. Per questo, ogni elaborazione teologica deve essere accompagnata da scelte concrete che mirano a cambiare la realtà, a partire dai piccoli gesti quotidiani fino alle grandi battaglie sociali e politiche. È una teologia che “scende in strada”, che si sporca le mani, che si mette a servizio di chi lotta per la dignità e la libertà.

Il termine “sovversiva” porta con sé un carico semantico importante, evocando l’idea di rottura, di messa in discussione delle strutture consolidate. Tuttavia, nella prospettiva teologica, la sovversione non è distruttiva, ma generativa: si tratta di provocare domande, di aprire spazi di dialogo, di dare voce a chi storicamente è rimasto ai margini. Questo approccio si ispira profondamente al messaggio evangelico, che sovverte le logiche del potere per mettere al centro i piccoli, i poveri, gli esclusi. La relazione tra la teologia sovversiva e il Magistero della Chiesa non è di mera contrapposizione. A volte, ciò che sembra minacciare l’ordine costituito può, in realtà, favorire una trasformazione positiva. La teologia sovversiva interroga il Magistero su temi cruciali come giustizia, inclusione, dignità, invitando la Chiesa a rivedere le proprie posizioni e ad aprirsi a nuove prospettive.

Al cuore della teologia sovversiva c’è il desiderio di una Chiesa “ospitale”, capace di accogliere tutte le diversità: culturali, sociali, di genere. Questo abbraccio non è una concessione, ma una risposta autentica al Vangelo, che invita a fare posto nell’assemblea ecclesiale a tutte e tutti. In tal senso, la teologia sovversiva si pone come alleata di una Chiesa che vuole essere madre. Nella storia recente, diversi movimenti e figure hanno incarnato questa tensione creativa: dalla teologia della liberazione in America Latina, che ha dato voce ai poveri contro le ingiustizie sociali, alle teologie femministe e queer, che hanno sfidato la Chiesa a ripensare il proprio linguaggio, i propri riti, le proprie strutture. Queste esperienze fanno da specchio a una Chiesa in cammino, chiamata a camminare insieme (sinodalità), come auspicato da Papa Francesco.

La teologia sovversiva ci invita a camminare insieme, con coraggio e speranza, verso una società più giusta e solidale.

 

giovedì 20 novembre 2025

20 NOVEMBRE GIORNO DELLA COSCIENZA NERA

 



20 Novembre: Giorno Nazionale di Zumbi dos Palmares e della Coscienza Nera

 

Paolo Cugini (a cura di)

 

Una data simbolo della lotta e della resistenza del popolo nero in Brasile

Il 20 novembre è il Giorno Nazionale di Zumbi dos Palmares e della Coscienza Nera. Dal tardo 2023, questa ricorrenza è diventata una festività nazionale in tutto il Brasile. Prima di allora, solo poco più di mille città (su circa 5.500 presenti nel paese) osservavano questa data.

Il cambiamento può essere recente, ma il Giorno della Coscienza Nera rappresenta da oltre quarant’anni un punto di riferimento nel calendario del movimento nero brasiliano.

Le origini del 20 novembre

La storia del 20 novembre ha inizio nella Porto Alegre del 1971. Fu in quell’anno che nacque il gruppo Palmares, composto da quattro studenti universitari neri gaúchos: Oliveira Silveira, Antônio Carlos Côrtes, Ilmo da Silva e Vilmar Nunes.

I quattro erano turbati dal modo in cui la storiografia ufficiale, soprattutto negli anni della dittatura militare, raccontava la fine della schiavitù in Brasile. La versione più diffusa nei libri dell’epoca esaltava il ruolo della principessa Isabel, dipinta come una sorta di “redentrice”, e presentava la popolazione nera come beneficiaria passiva dell’abolizione.

Il discorso ufficiale ignorava l’azione di numerose leadership nere che, nel corso dei secoli, si erano battute contro la schiavitù. Tra questi, l’ingegnere nero André Rebouças, il cui progetto di abolizione prevedeva anche un piano di distribuzione delle terre agli ex schiavi.

Zumbi 1655-1695


Un’altra figura messa in secondo piano era quella del leader quilombola Zumbi dos Palmares. Zumbi nacque libero intorno alla metà del XVII secolo, ma fu catturato e ridotto in schiavitù. Il quilombo di Palmares, che lui guidò, fu il più grande del periodo coloniale: si stima che abbia ospitato, contemporaneamente, più di 20.000 persone nere e indigene. Per oltre 100 anni, Palmares resistette agli attacchi delle truppe coloniali. Per le sue dimensioni, funzionava come una sorta di Stato indipendente all’interno del Brasile, che all’epoca era una colonia portoghese.

Il quilombo di Palmares resistette fino al 1695, quando i bandeirantes paulisti uccisero Zumbi il 20 novembre di quell’anno.

La nascita di una data simbolica

Quasi tre secoli più tardi, l’avvocato Antônio Carlos Côrtes trovò per caso, nella biblioteca municipale di Porto Alegre, un libro che avrebbe coronato le discussioni sue e dei suoi amici riguardo la lotta dei neri contro la schiavitù. “O Quilombo de Palmares”, di Edison Carneiro, ripercorreva la storia della resistenza di Palmares e descriveva Zumbi come un leader coraggioso e abile.

Nacque così la proposta di eleggere la data della morte di Zumbi a simbolo della resistenza nera, in contrapposizione al 13 maggio, giorno della firma della Legge Aurea.

Il Quilombo è una comunità formata da persone che fuggirono dalla schiavitù
Sono circa 8000 i quilombo riconosciuti oggi in Brasile


Il primo Giorno della Coscienza Nera si tenne già nel 1971, presso il club Náutico Marcílio Dias, a Porto Alegre. Vi parteciparono una ventina di studenti neri, che discussero l’eredità della schiavitù in Brasile.

Il giorno seguente, Oliveira Silveira, un altro membro del gruppo, pubblicò una colonna sul giornale gaúcho Correio do Povo, invitando “i neri del Brasile – e, se possibile, tutti i brasiliani” a “celebrare con grande entusiasmo, rendendo omaggio alla memoria dei nostri eroici antenati” il 20 novembre. Il gruppo Palmares si sciolse nel 1978. A quel punto, l’idea del 20 novembre si era già diffusa in tutto il paese.

Un’abolizione incompleta

Le discussioni del gruppo Palmares riecheggiarono tra gli attivisti del movimento nero, che già mettevano in dubbio la narrazione ufficiale sull’abolizione della schiavitù.

Era il caso dei membri del neonato Movimento Negro Unificado (MNU). Creato nel 1978, in piena dittatura militare, il Movimento Negro Unificado nacque come reazione a tre episodi di razzismo dell’epoca: l’arresto e l’assassinio, da parte della dittatura, del venditore di frutta Robson Silveira da Luz, accusato di furto; l’uccisione dell’operaio Milton Lourenço, morto per mano della polizia; e la discriminazione di quattro giocatori di volley neri da parte del Club Regatas do Tietê. Il gruppo, che arrivò a riunire decine di associazioni del movimento nero, organizzò una manifestazione davanti al Teatro Municipale di San Paolo — e, da lì, iniziò a coordinare le richieste del movimento, che sarebbero poi state presentate durante la stesura della Costituzione Federale del 1988.

Il 13 maggio 1988, cent’anni dopo l’abolizione della schiavitù in Brasile, il MNU lanciò lo slogan “La principessa si è dimenticata di firmare il nostro contratto di lavoro”. L’intenzione era quella di evidenziare come, un secolo dopo l’abolizione, la popolazione nera brasiliana fosse ancora vittima di razzismo, tradotto in salari più bassi e condizioni di vita peggiori in generale. Secondo il MNU, l’abolizione era stata breve e incompleta.

L’11 maggio di quell’anno si tenne anche la “Marcia dei neri contro la farsa dell’Abolizione” a Rio de Janeiro. La manifestazione fu organizzata dall’Istituto di Ricerca delle Culture Nere (IPCN) e radunò migliaia di persone nel centro della capitale carioca. Da quel momento, la figura redentrice della principessa Isabel venne sostituita da quella di Zumbi dos Palmares: un simbolo della lotta e della resistenza dei neri contro la schiavitù.

Riconoscimento ufficiale

Nel 2011, la presidente Dilma Rousseff ha ufficializzato il carattere nazionale della ricorrenza. E, nel 2024, il presidente Lula ha ratificato la legge che ha reso il Giorno della Coscienza Nera una festività nazionale.

 

Fonte: https://www.brasildedireitos.org.br/

mercoledì 19 novembre 2025

ASSEMBLEA DELLE COMUNITA’ IN UNA PARROCCHIA DI PERIFERIA DI MANAUS (AMAZZONIA)

 


Un momento dell'Assemblea


Un’incredibile esperienza di Chiesa

Paolo Cugini

 

 

Domenica 16 novembre si è svolta l'Asemblea nella parrocchia San Vincenzo de Paoli, costituita da sette comunità, più una in formazione, situata in una delle zone più calde della città di Manaus. Zona calda perché dominata da quel Comando Vermelho (Comando Rosso), fatto da trafficanti di droga che gestiscono il territorio e dove è importante apprendere alla svelta come ci si deve muovere e in che orari. Solo per fare un esempio. Per nove mesi mi è stato proibito di celebrare la messa e anche di passare in una zono molto povera dove stiamo tentando di costituire una comunità. Per celebrare la messa in quella zona devo chiedere l’autorizzazione ai trafficanti locali e, per ben nove mesi, non me l’anno data. Altro esempio. Nei primi mesi della mia permanenza nella Compensa – adoro essere il parroco di questo territorio – verso le 23 stavo passando in una stradina del quartiere. Ad un certo punto del cammino si sono avvicinanti due tizi che mi hanno chiesto: “dove pensi di andare?” . La domanda e il tono in cui mi è tata posta mi ha fatto intuire subito che si trattava di trafficanti della zona. Ho, quindi, prontamente risposto che ero il nuovo parroco della Compensa e che stavo tornando a casa. “Impari, allora, a dove mette i piedi. Qui siamo nella Compensa”. Da quel giorno, non sono mai più passato alla sera tardi in quella zona. Il messaggio mi era arrivato forte e chiaro.

Uno squarcio di Compensa


Che cosa significa annunciare il Vangelo in questo territorio? Che strategie pastorali mettere in atto? È stata questa la domanda che ha accompagnato l’annuale assemblea delle comunità. Più di cento persone si sono fatte presenti. Ormai sono abituati a convivere in questa situazione. Alle 20,30 le attività nelle comunità devono terminare: bisogna tornare a casa sani e salvi. Non c’è famiglia che non abbia da raccontare situazioni drammatiche vissute in questi anni. Non potendo affrontare il problema droga e traffico in modo diretto, cerchiamo di aggirarlo moltiplicando i progetti di prevenzione. Negli ultimi due anni si è sviluppato un grande lavoro di pastorale giovanile, che ingloba anche il progetto di Capoeira. Attraverso il progetto sociale Margens stiamo entrando nelle stradine del quartiere – in alcuni punti una vera ragnatela- per coinvolgere i bambini con proposta gratuite (musica, teatro, lezioni di inglese e altro). Ciò che mi colpisce di più negli operatori pastorali è la creatività. Ne inventano di tutti i colori. Ogni sabato preparo il calendario pastorale della settimana successiva: più di ottanta eventi di tipo religioso, sociale, ludico avvengono nelle comunità. Il parroco, che sono io, è presente nelle messe e nello studio biblico. Interessante è che non mi chiedono nemmeno di essere presente, che era uno dei motivi che mi stressavano di più quando ero in Italia. Se non ci sono sanno il perché.

I giovani della parrocchia che hanno partecipato al Giubileo dei giovani svoltosi nel mese di ottobre


Nella seconda parte dell’Assemblea sono state presentate le nuove coordinazioni pastorali delle comunità. Ogni comunità, infatti, è gestita da una coordinatrice pastorale, un amministrativo e un responsabile per ogni settore della pastorale (catechesi, liturgia, decima, salute, giovani, ecc.). Ogni due anni vengono rinnovate le coordinazioni. Una persona può decidere di rinnovare il mandato per una volta, poi deve consegnare il mandato. Questo modo di gestire la comunità è scritto nel direttorio arcidiocesano, frutto di un lavoro sinodale durato due anni. Quando nel luglio di due anni fa sono arrivato a Manaus, il Cardinale Leonardo mi ha consegnato il direttorio pastorale e quello amministrativo e mi ha detto: “studiali. Dovrai lavorare sulle linee pastorali indicate su questi due testi”. Sono rimasto favorevolmente colpito da queste parole, perché volevano dire che un prete quando entra in una parrocchia di questa diocesi non fa quello che vuole: c’è un progetto pastorale da servire.

Volontari Caritas di una delle comunità


Abbiamo, infine deciso una data in gennaio per dare l’invio ecclesiale a circa 150 tra giovani e adulti che faranno di tutto nei prossimi due anni per pensare come rendere possibile la proposta del Vangelo nelle comunità della Compensa. Tra di loro tantissime donne che, non solo celebrano la Parola di Dio alla Domenica, ma si fanno in quattro per visitare gli ammalati, gli anziani, per preparare i pasti per i poveri e tenere dietro al parroco che ogni tanto ne combina qualcuna. 

domenica 16 novembre 2025

Concluso il Vertice dei Popoli, alla COP 30

 



 Emerge "una chiave per la speranza"

 

Articolo di: Luis Miguel Modino

Sintesi e traduzione: Paolo Cugini

 

Il Vertice dei Popoli, il più importante movimento legato alla COP30, ha concluso le sue attività il 16 novembre. Più di 23.000 persone si sono registrate, provenienti da oltre 60 paesi, oltre a molti altri che hanno partecipato alle varie attività svolte presso l'Università Federale del Pará (UFPA). Tra loro c'erano rappresentanti di vari gruppi pastorali, movimenti e organizzazioni della Chiesa cattolica.

L'impegno della Chiesa verso gli emarginati.

Una presenza della Chiesa cattolica che il vescovo della diocesi di Brejo (Maranhão) e presidente della Commissione per l'azione socio-trasformativa della Conferenza Nazionale dei Vescovi del Brasile (CNBB), Dom José Valdeci Santos Mendes, considera molto importante, "in questo senso di testimonianza, di impegno verso gli emarginati". Nel giorno in cui la Chiesa cattolica celebra la Giornata Mondiale dei Poveri, il vescovo ha sottolineato che "questo richiede da noi una testimonianza, un impegno e una lotta per la vita. E direi che questa lotta per la vita è una lotta per il territorio libero dei popoli, è una lotta per la dignità, è una lotta per i diritti, è una lotta affinché la giustizia sociale, la giustizia socio-ambientale si realizzino di fatto in mezzo a noi ".

Il vescovo Valdeci ha sottolineato che “i ministeri sociali, le organizzazioni del popolo di Dio, hanno questo grande impegno di intraprendere la lotta insieme ai movimenti popolari, a coloro che lottano per la vita, la vita umana e la vita del Pianeta”. In questa prospettiva, mentre il Brasile ospita la COP30, il vescovo ha insistito sul fatto che “la Chiesa cattolica deve ascoltare di più le comunità tradizionali, i popoli indigeni, e anche imparare, avere l’umiltà di imparare in modo da poter veramente svolgere il suo ruolo e testimoniare Cristo. Cristo che ha sofferto, Cristo che è stato perseguitato, e così sono anche i nostri popoli e le nostre comunità”.

Infine, il vescovo della diocesi di Brejo ha affermato che “dobbiamo assumere sempre più questa responsabilità, ascoltando il grido di tanti fratelli e sorelle che ancora oggi sono torturati ed emarginati. Dobbiamo compiere questo passo nell’impegno e nella fedeltà al Vangelo di nostro Signore Gesù Cristo”.



La voce di Raoni Metuktire

La chiusura del Vertice dei Popoli ha visto la partecipazione di uno dei più grandi leader indigeni del Brasile e del mondo, Raoni Metuktire. Il leader indigeno del popolo Kayapó, ricevuto da Papa Francesco in Vaticano, ha invocato l'unità tra tutti, invocando "la continuità affinché possiamo combattere contro coloro che vogliono il male in questo universo, che vogliono distruggere questa Terra". Di fronte al cambiamento climatico e alle guerre, ha chiesto rispetto reciproco e la possibilità di vivere in pace su questa Terra.  Il capo Kayapó ha chiesto il dialogo con le autorità e gli stati per porre fine alla deforestazione, all'attività mineraria illegale e allo sfruttamento del territorio. Ha chiesto protezione e assistenza per le popolazioni indigene, soprattutto in ambito sanitario. Infine, Raoni ha riflettuto sulle conseguenze del cambiamento climatico, mettendo in guardia dal grande caos che potrebbe verificarsi "se non avremo la consapevolezza di difendere ciò che resta ”.

Dichiarazione del Vertice e Carta dei Diritti dell'Infanzia

Il Vertice dei Popoli ha redatto una dichiarazione in cui esprime la volontà di intraprendere "il compito di costruire un mondo giusto e democratico, con benessere per tutti", sottolineando che "siamo unità nella diversità". Il testo afferma che "non c'è vita senza natura. Non c'è vita senza etica e lavoro di cura". A tal fine, sono necessari scambi di conoscenza e saggezza, che costruiscono legami di solidarietà. Il testo analizza la realtà attuale in sette punti prima di formulare 15 proposte. Per avanzare su questa strada, hanno chiesto l'unificazione delle forze attraverso l'organizzazione dei popoli.

La Carta dei Bambini è stata presentata anche al Vertice dei Popoli, riunitosi a Belém (PA) per discutere del cambiamento climatico. Il testo denuncia l'aumento della temperatura e le sue conseguenze sulla vita dei bambini. Affermano che "Siamo natura, il pianeta è natura. La natura è tutto!", e chiedono "un futuro meraviglioso in cui vivere". A tal fine, "Dobbiamo prenderci cura e proteggere l'AMAZZONIA", sottolineano i bambini, avanzando una lunga lista di proposte e richieste, dato che: " vogliamo continuare a vivere! Crescere in un mondo meraviglioso, in un mondo che respira ancora. Con speranza e senza paura! "

Tenendo conto della società civile

Sia la dichiarazione che la lettera sono state presentate al presidente della COP30, l'ambasciatore André Corrêa do Lago, e al governo federale brasiliano, rappresentato dai ministri Sônia Guajajara, Marina Silva e Guilherme Boulos. Corrêa do Lago ha ricordato la richiesta del presidente Lula affinché la COP30 tenga conto della società civile. A questo proposito, ha sottolineato l'importanza dei testi, che saranno presentati alla riunione di alto livello in cui verranno prese le decisioni.

Sônia Guajajara ha insistito sul fatto che la democrazia ha bisogno della partecipazione del popolo, che deve essere ascoltato. La Ministra dei Popoli Indigeni ha definito i partecipanti al vertice come "i più grandi custodi della vita, sia nel territorio che nelle periferie delle grandi città, nei quilombos (insediamenti di schiavi fuggitivi)". Ha sottolineato la presenza indigena nella Zona Blu, con oltre 900 rappresentanti, che contribuiscono a spostare l'attenzione delle discussioni.

Messaggio del Presidente Lula

La Ministra Marina Silva ha letto il messaggio del Presidente Lula al Vertice dei Popoli. Ha affermato che "la COP30 non sarebbe realizzabile senza la vostra partecipazione", aggiungendo che " la lotta contro il cambiamento climatico richiede la mobilitazione e il contributo di tutta la società, non solo dei governi. Il vostro entusiasmo e il vostro impegno sono fondamentali per continuare questa lotta. Voi siete portatori della forza e della legittimità di coloro che aspirano al meglio".

Il presidente brasiliano ha insistito sull'urgenza del cambiamento e ha difeso lo sviluppo sostenibile e "un mondo in pace, più unito, meno diseguale, libero da povertà, fame e crisi". Per questo "non possiamo rimandare le decisioni che sono state dibattute per così tanti anni". A tal fine, ha chiesto "roadmap affinché l'umanità, in modo giusto e pianificato, possa superare la sua dipendenza dai combustibili fossili, fermare e invertire la situazione attuale e mobilitare le risorse". Pertanto, " non possiamo lasciare Belém senza decisioni ", il che rende fondamentali i negoziati fino alla fine della COP, forum a cui parteciperà.



Una chiave per la speranza

Marina Silva ha raccontato la sua storia di vita in Amazzonia, segnata fin dall'infanzia dalla povertà e dal lavoro semi-schiavo. La ministra ha descritto alcuni elementi che caratterizzano l'attuale realtà climatica e gli sforzi del governo brasiliano per ridurre incendi e deforestazione. Infine, ha fatto appello al coinvolgimento di tutti nella tutela dell'ambiente e ha affermato di considerare il Vertice dei Popoli "una chiave di speranza ".

Guilherme Boulos ha espresso la sua gioia per la Marcia dei Popoli tenutasi sabato 15 novembre, con la partecipazione di oltre 70.000 persone. Secondo il Ministro della Segreteria Generale della Presidenza, " avete fatto e state facendo la differenza in questa COP ". Si è congratulato con il presidente della COP30 per aver ascoltato gli appelli del Vertice dei Popoli. Boulos ha denunciato la responsabilità delle grandi aziende e dei Paesi del Nord del mondo di fronte all'attuale realtà climatica.

 

sabato 15 novembre 2025

La Teologia del dissenso

 



Un ponte necessario tra dottrina e realtà vissuta

 

Paolo Cugini

 

 

La teologia del dissenso rappresenta un ambito di riflessione e di confronto che, pur sviluppandosi all’interno del panorama ecclesiale, si carica di una valenza profondamente umana e comunitaria. Essa nasce dal riconoscimento di una tensione costante: quella tra la fermezza della dottrina ufficiale della Chiesa e la molteplicità irriducibile delle esperienze concrete vissute dai credenti. In questa dialettica si gioca una partita delicata, capace di suscitare interrogativi radicali sulla funzione stessa della dottrina e sul ruolo della comunità cristiana nel mondo contemporaneo.

Il dissenso, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non scaturisce da uno spirito di ribellione fine a se stesso, ma dalla percezione acuta di una distanza, talvolta dolorosa, tra i principi assoluti affermati dalla gerarchia e la concretezza della vita quotidiana. Spesso sono proprio coloro che vivono sulla propria pelle questa discrepanza a dare voce al dissenso, non per negare la fede, ma per restare fedeli ad essa nel contesto della loro realtà. La dottrina, per sua natura, tende a formulare norme e principi generali, spesso basati su astrazioni e su una conoscenza parziale della complessità umana. Di conseguenza, può apparire rigida e incapace di accogliere tutta la ricchezza e le sfumature dell’esperienza individuale e collettiva. In questo spazio di scollamento, il dissenso teologico trova ragion d’essere e si fa portavoce delle istanze di chi non si riconosce in definizioni percepite come troppo astratte, impersonali o addirittura nocive per chi vive situazioni di marginalità o giudizio negativo.

Il dissenso non si limita alle dispute accademiche tra teologi, ma permea la vita delle comunità cristiane. Spesso si manifesta in modo silenzioso, quasi sommerso: molte persone, nella loro quotidianità, scelgono percorsi personali che divergono dalle prescrizioni dottrinali, a volte senza neppure esserne consapevoli. Ciò solleva una domanda fondamentale: a cosa serve la dottrina, se non a guidare e sostenere il cammino di fede delle persone? La dottrina, infatti, dovrebbe essere uno strumento a servizio della vita, non un fardello insopportabile. In questa prospettiva, il dissenso si configura come un pungolo critico, un elemento indispensabile per evitare che la fede si riduca a un insieme di regole astratte. L’eco delle parole di Gesù contro i farisei, che imponevano pesi dottrinali che loro stessi non erano in grado di portare, risuona ancora oggi con forza e attualità.

La teologia del dissenso non si limita alla constatazione della distanza tra dottrina e realtà, ma si impegna a raccogliere, organizzare e formalizzare le contraddizioni in argomentazioni solide. Il suo scopo è quello di smascherare le invenzioni dottrinali, cioè quelle norme o interpretazioni che si sono allontanate dall’essenza del messaggio evangelico o dalla vita reale del popolo di Dio. Attraverso il confronto con la realtà vissuta, il dissenso teologico cerca di riportare la dottrina alla sua funzione originaria: essere una parola di speranza e di senso per l’esistenza concreta delle persone. In questo senso, il dissenso non è nemico della Chiesa, ma risorsa preziosa per il suo cammino di autenticità e coerenza.

La tensione tra ideale e realtà non potrà mai essere completamente risolta. La teologia del dissenso svolge quindi la funzione di mantenere aperto il dialogo, di impedire che la dottrina si cristallizzi in astrazioni sterili e di garantire che la fede continui a parlare alla vita. Si tratta di un equilibrio delicato e dinamico, in cui il dissenso non distrugge, ma costruisce. In definitiva, la teologia del dissenso è un ponte: non tra due sponde contrapposte, ma tra un ideale che rischia di diventare irraggiungibile e una realtà che chiede di essere compresa, accolta e redenta. È grazie a questo ponte che la fede può continuare a essere, oggi come ieri, sale della terra e luce del mondo.

 

lunedì 10 novembre 2025

SGUARDI DALL'AMAZZONIA

 





Sono passati dalla Compensa, il quartiere in cui vivo da due anni e accompagno la parrocchia di san Vincenzo de Paoli composta di sette comunità, un gruppo di otto giovani del Centro Missionario di Reggio Emilia. Hanno vissuto per tre settimane nelle famiglie di due comunità, conoscendo, quindi, da vicino, la realtà di un quartiere della periferia di Manaus. Questi giovani hanno potuto sperimentare da vicino il dinamismo dei laici e laiche impegnati nelle comunità ecclesiali locali. Hanno potuto vedere da vicino la grandezza dell’Amazzonia, il fiume Rio Negro, conoscere persone, partecipare a momenti celebrativi e formativi. Oltre a ciò, hanno avuto la possibilità di intervistare persone, soprattutto donne, conoscere la loro lotta quotidiana e assaporare la serenità di chi lotta con la consapevolezza che il Regno di Dio è dei poveri, degli esclusi e che il Padre li ama.

Questi giovani hanno raccolto molto materiale, lo hanno organizzato e ora lo rendono disponibile per coloro che intendono conoscere una realtà ecclesiale e sociale così viva e importante anche per noi. Chi volesse organizzare una serata con loro può entrare in contatto con il Centro Missionario di Reggio Emilia. 

giovedì 6 novembre 2025

Fare teologia ai margini: una fede che abita le periferie

 




Paolo Cugini

 

La teologia, nella sua accezione più classica, è spesso associata a un sapere accademico, sistematico, racchiuso tra le pagine di trattati e manuali che stabiliscono i confini della dottrina cristiana. Eppure, come la pioggia che scorre anche dove il terreno è più arido, esiste un modo di fare teologia che germoglia proprio ai margini di questi confini: dove la vita reale pone domande che i libri spesso non contemplano, dove la fede incontra la concretezza della sofferenza, del dubbio, dell’esclusione. Fare teologia “ai margini” significa spostare il baricentro della riflessione teologica dalle aule universitarie alle strade, ai luoghi dove il dolore e la speranza si intrecciano giorno dopo giorno. È una teologia che si fa prossima, che ascolta senza giudicare e accompagna chi vive ai bordi dell’esperienza religiosa, spesso lontano dai riflettori e dalle certezze offerte dalle istituzioni. Proprio nelle ferite della storia umana la teologia trova nuovi orizzonti di senso.

Il teologo che sceglie di camminare ai margini non si accontenta di contemplare il Mistero da lontano, ma si lascia interrogare dai volti concreti di chi, pur credendo profondamente, si trova escluso per ragioni dottrinali: separati, divorziati, omosessuali, transessuali, lesbiche, persone segnate da vissuti che non rientrano nelle regole. Sono storie di fede genuina che la Chiesa, talvolta, ha lasciato fuori dalle proprie porte. Eppure, proprio là dove la vita sembra deviare dai canoni, si manifesta una presenza inattesa e straordinaria del Mistero. Paradossalmente, è nelle situazioni di marginalità che la fede si rivela spesso più autentica, più radicale. Nei bassifondi della storia, nelle periferie della società, il teologo attento percepisce una forza spirituale che sfugge alle definizioni e alle etichette, ma testimonia la vitalità della fede cristiana. Fare teologia ai margini vuol dire accettare la sfida di pensare la fede a partire dalle domande concrete che emergono dalla vita delle persone escluse, riconoscendo che la dottrina, pur essenziale, non può esaurire il Mistero; che le regole, seppur necessarie, non possono soffocare la sete di Dio che anima ogni cuore.

La teologia marginale si nutre di esperienze, di ascolto, di storie. In un tempo in cui molti vivono una distanza dalla Chiesa ma non dal desiderio di Mistero, questa teologia offre uno spazio di accoglienza e dialogo. Il vero teologo diventa allora colui che si lascia interrogare dalle ferite della storia, dalle domande di chi è stato messo ai margini, e non solo chi interpreta la dottrina. È la capacità di farsi prossimo, di “camminare insieme” – come suggerisce la parola sinodalità – che permette alla fede di continuare a parlare alla vita, anche quando la vita si svolge fuori dagli schemi consueti. C’è, dunque, una teologia in cammino che, sentendo il profumo del Mistero, lo riconosce nelle situazioni esistenziali più complesse, anche in quelle che la stessa dottrina ha contribuito a creare. Il teologo che ama il Mistero rivelato in Gesù si accorge della ricchezza nascosta in quelle storie marginali, che portano con sé un tesoro di conoscenza e di vita incredibile. Dalle situazioni di esclusione possono nascere nuove comprensioni della fede, nuove vie di comunione e di speranza. Fare teologia ai margini non significa abbandonare la dottrina, ma riconoscere che il Mistero di Dio supera ogni confine umano. Significa avere il coraggio di ascoltare le domande vere, di lasciarsi provocare dal dolore e dalla ricerca che abitano le periferie dell’esistenza. Solo così la fede può continuare a essere parola viva, capace di illuminare anche le notti più oscure della storia e di offrire, a chi si sente escluso, una casa dove il cuore può riposare.