lunedì 18 novembre 2024

LA DIVINITA’ DI GESU’ CRISTO DAL NUOVO TESTAMENTO AL CONCILIO DI NICEA

 





Testo di: Raniero Cantalamessa

sintesi: Paolo Cugini


Al momento in cui la fede cristiana incontra l'ellenismo ed entra in dialogo con la filosofia greca, la credenza nella divinità di Cristo è un dato pacifico in seno alla comunità cristiana. Occorre indagare non sull'origine della fede nella divinità di Cristo, ma sulla reazione a tale fede. Con la sua sola esistenza, tale reazione è la migliore prova storica del fatto che la Chiesa in questa epoca professa universalmente la propria fede in Cristo come Dio. 

Non si tratta di una prova puramente generica e deduttiva. Tutto il discorso veritiero di Celso è una testimonianza chiara della pacifica fede dei cristiani nella divinità di Cristo. Una fede tanto sicura di sé, che il filosofo pagano ne è perfino indispettito. Questa fede aveva da sempre il suo centro propulsore nell'esperienza di salvezza e nel culto della Comunità. Il minimo che si deve dire è che il dogma della divinità di Cristo non è il risultato dell'incontro e magari della polemica con l'ellenismo, ma che preesiste adesso. 

L'affermazione della divinità di Cristo non è frutto di astratta speculazione a conclusione di un processo intellettuale, ma è espressione del culto e della fede della Chiesa. E proprio questa fede vissuta comunitariamente, che costituisce il retroterra e la pedana di lancio dalla quale i pensatori cristiani muovono alla conquista intellettuale dell'ambiente, alla fede in Cristo. Quello, dunque, che entra in gioco nell'incontro con l'ellenismo e che eventualmente si può dire che dipende da esso, non è il dato primordiale della fede nella divinità di Cristo, ma è il modo categoriale con cui è espresso e con cui è difeso, in una parola, la sua teologizzazione. Qualunque cosa Giustino dica, o non dica circa la divinità di Cristo, non bisogna mai dimenticare ciò che egli ripete per almeno 8 volte, che cioè Cristo è un Dio adorato dai cristiani. 

Le più antiche testimonianze sulla reazione pagana contro la divinità di Cristo le troviamo negli apologisti stessi, ma soprattutto in Celso, cui più tardi si aggiungerà la voce di Porfirio e di qualche altro pensatore pagano minore. Dall'insieme delle testimonianze emergono due tipi di obiezione. La prima è di tipo metafisico. Mentre la seconda di tipo etico. Schematizzando i dati, potremmo dire che la prima, l'obiezione metafisica si concentra di preferenza intorno al fatto della nascita, l'incarnazione. Mentre l'obiezione etica si concentra sul fatto della morte, cioè la stoltezza della Croce. Una riflette lo scandalo intellettuale dell'Ellenismo di fronte alla fede cristiana, l'altra lo scandalo morale. L'impatto della predicazione della Croce sulla visione etica dei greci, tutta dominata dal valore supremo della Sapienza, faceva ritenere ad essi immorale, oltre che stolto, parlare di un Dio crocifisso tra gente perbene.

L'obiezione della trascendenza di Dio.

L'obiezione metafisica contro la divinità di Cristo prende corpo in seno all'enigma a partire da due concetti strettamente collegati tra loro, ma distinti: Trascendenza di Dio e contingenza storica di Cristo. La critica al dogma della divinità di Cristo in base all'idea di trascendenza, occupa il cuore della polemica di Celso contro il cristianesimo. Il concetto di fondo è l'impossibilità di un intervento reale e personale di Dio nel mondo e nella storia. Celso si sforza di dimostrare che un tale intervento è assurdo. Per fare ciò, egli fa appello a tutte le supreme certezze della grecità. Dimenticando perfino la tradizionale rivalità e le profonde divergenze di scuola esistenti tra stoici e platonici. Mentre, infatti, l'impossibilità da parte di Dio di intervenire realmente e direttamente nelle cose del mondo costituisce il tema platonico per eccellenza, l'impossibilità da parte del cosmo ad accogliere un simile intervento divino dall'esterno, sviluppa un tema tipicamente stoico.

Se, come affermano i cristiani, Dio in persona discende verso gli uomini, ciò argomenta Celso, comporta un cambiamento nelle cose di quaggiù. Ma cambiare anche la più piccola delle cose di quaggiù significa sovvertire e distruggere l'universo. Partendo dalla concezione stoica di un universo in sé, chiuso e immutabile nel suo ordine, che non ammette interventi dall'esterno, perché nulla esiste fuori di esso, Celso ha colto con singolare chiarezza, un aspetto dei più profondi della rivoluzione mentale portata dal cristianesimo. Il mondo dei greci ha scritto il teologo Brehier è un mondo, per così dire, senza storia. Un ordine eterno in cui il tempo non ha alcuna efficacia, sia che lasci l'ordine sempre identico a se stesso, sia che generi una successione di eventi che tornano sempre al punto di partenza, secondo mutamenti ciclici che si ripetono indefinitamente. L'idea inversa, che cioè vi sono nella realtà cambiamenti radicali delle iniziative assolute, delle vere invenzioni, in una parola, che vi sia una storia e un progresso nel senso generale del termine, una simile idea fu impossibile prima che il cristianesimo non venisse a sconvolgere il cosmo degli elleni. Tra queste, iniziative divine che producono cambiamenti radicali e che creano una novità, dando all'universo un volto drammatico, l'incarnazione, insieme con la creazione e la parusia costituisce uno dei momenti salienti. Il rilievo maggiore, il platonico Celso lo dà all'altro aspetto del problema, quello dell'impossibilità di Dio a intervenire personalmente nelle cose del mondo. A causa della sua trascendenza, in base a ciò, la divinità di Cristo è impugnata in quanto legata al fatto dell'incarnazione. È  l'umanità di Cristo che rende filosoficamente impossibile la sua divinità. Partendo dal celebre dogma platonico nullus deus miscetur hominibus, Celso trova addirittura scandalosa l'affermazione che un Dio, o il figlio di Dio sia disceso sulla terra. L'incarnazione distrugge infatti, la prerogativa divina dell'immutabilità e comporta una degradazione. Distrugge la trascendenza perché, se Dio in persona discende tra gli uomini, egli abbandona il suo trono. Su questo punto Celso è il portavoce di tutta la più genuina tradizione greco platonica che accompagna il cristianesimo in tutta la sua fase ellenistica.

“No, non siamo pazzi o greci. Esclama Taziano. Ne preferiamo sciocchezze quando diciamo che Dio è nato in forma umana.” Il motivo reale di tanto scandalo era il dualismo platonico di materie e spirito, che unito all'essenza dell'idea di creazione dal nulla, portava a considerare ogni contatto con la realtà corporea dell'uomo sempre e necessariamente inquinate per Dio. Secondo Celso, quand'anche Cristo fosse stato Dio, dopo la risurrezione non avrebbe più potuto riprendere il suo posto accanto al Padre, perché il suo spirito era ormai macchiato dalla natura del corpo. L'orrore della Natività, cioè la ripugnanza per la fisiologia della nascita umana, che è il riflesso del dualismo metafisico sul piano esistenziale, affiora ogni volta che un filosofo pagano si trova a parlare dell'incarnazione. Esso era tanto forte che contagiò molti spiriti colti tra gli stessi cristiani, dando luogo al grande fenomeno dello gnosticismo. Mentre però in campo pagano lo scandalo è risolto negando che Cristo fosse Dio, in campo cristiano è risolto dagli gnostici negando che fosse uomo. Doceti.

L’obiezione della contingenza storica e dell’immanenza di Cristo. 

Quando c'è il senso muove il suo attacco contro il cristianesimo Giustino ha già portato a termine quella grandiosa operazione intellettuale che è l'identificazione del Gesù storico con il principio universale e metafisico del logos. Celso e a conoscenza dell'operazione. Ma questo non è sufficiente a far cadere la sua critica indignata. “Celso accusa cristiani di somigliare ai sofisti quando dicono che il figlio di Dio è il logos in persona e rincara l'accusa aggiungendo che dopo aver proclamato che il logos è il figlio di Dio noi presentiamo il luogo del luogo del logos puro e Santo un uomo ignominiosamente flagellato e condotto al supplizio” (Origene). Appare in queste parole tutto lo scandalo intellettuale del greco che vede infranta la più intangibile e sacra delle barriere quella tra il mondo di lassù e il mondo di quaggiù tra il mondo dell'universale e dell'eterno è quello del contingente e del divenire:  tra il mondo dell'assoluto e il mondo della storia. Il logos da principio universale di intelligibilità del cosmo si trova ad essere un uomo nato vissuto e morto in un certo momento della storia e in un certo punto della terra. Qui si esprime l'irrilevanza religiosa e ontologica della storia per il greco, l'impossibilità di concepire storicamente la rivelazione e quindi il logo stesso. Dio e la storia non possono essere pensati insieme, formano un connubio innaturale. Da qui deriva la difficoltà di riconoscere come logos e come Dio un uomo immerso tutto intero nella storia la cui esistenza era tutta quanta definibile dentro coordinate geografiche e cronologiche. “ figlio di Dio un uomo vissuto pochi anni fa uno di ieri o avanti ieri” (Celso).

Per comprendere l'istanza di fondo da cui nasce questa reazione del paganesimo colto bisogna partire da quella specie di fossato di protezione che la filosofia religiosa del tempo aveva scavato intorno alla trascendenza di Dio con la cosiddetta teologia negativa. Dio è incomprensibile invisibile impassibile non ha principio non ha nome non ha luogo non ha forma. Come giustificare quindi la divinità di una persona che con la sua positività storica e umana era esattamente agli antipodi di queste immagini di Dio ottenuta mediante la via negativa? Tutta la teologia negativa in Gesù diventa positiva. Egli era visibile, passibile, aveva un nome, un principio, un tempo, un luogo, una forma. In Cristo si intersecano quei due piani che nel pensiero greco erano rimasti sovrapposti e divisi: quello della trascendenza e quello dell'immanenza. Il concetto greco di spazio come ricettacolo, ne esce radicalmente trasformato, al punto che in un nuovo senso, Cristo appare lui stesso come lo spazio o il luogo dell'incontro e dello scambio tra Dio e l'uomo il punto di intersezione tra trascendenza immanenza o come si dirà in un linguaggio più evoluto il mediatore. La conseguenza più vistosa è che l'idea di trascendenza da categoria esclusivamente teologica, diventa anche categoria cristologica. Con essa, infatti, non si vuole affermare solamente la trascendenza infinita di Dio rispetto all'uomo ma anche la trascendenza di Cristo rispetto all'umanità intera al cosmo e alla storia. Tutto questo però non apparirà chiaro alla stessa teologia cristiana che in seguito alla definizione di Nicea per opera soprattutto di Atanasio. 

La risposta cristiana

Giustino aveva capito che l'attacco del mondo pagano poteva venire sul piano filosofico e perché l'ostacolo alla fede in Cristo per i greci era sulla contingenza storica il suo essere nato da Maria poco più di un secolo e mezzo prima. Egli si era preoccupato di dare alla figura di Cristo quella base di universalità e di assolutezza che gli rivestiva già nella fede della comunità e che Paolo e Giovanni avevano espresso con categorie o almeno in un quadro del pensiero giudaico. E esattamente quello che Giustino fece mediante l'identificazione chiara e programmatica del Gesù nato da Maria con il principio universale del logos e in posizione subordinata con la realtà del pneuma. “Il logos primogenito di Dio senza commercio carnale è nato come nostro maestro Gesù Cristo è stato crocifisso è morto e risorto ed è asceso al cielo”. Quella operata dai primi padri greci è stata un'operazione difficile perché christificava di colpo tutto il reale e tutto il reale aveva per i greci la sua intelligibilità dal logos. Criticava in pari tempo tutta la storia grazie all'idea delle sementi del verbo che convogliava verso Cristo tutto il cammino ideale dell'umanità prima della sua venuta, con lo stesso dinamismo con cui la parte tende al tutto, il logos parziale tende al logos integrale che è il Cristo. I cristiani avevano preso in prestito dai greci un logos principio cosmico universale e ora ripresentavano ad essi un logos personale persona storica e figlio primogenito di Dio. L'identificazione di Cristo con il logos, infatti, portava spontaneamente sotto l'influsso dei testi neotestamentari all'identificazione del Logos con il figlio di Dio. Ehi un fatto questo della massima importanza perché poneva le basi della spiegazione della divinità di Cristo mediante il concetto della generazione (figlio) razionale (logos), che formerà in seguito il cardine di tutta la teologia trinitaria.

Il subordinazionismo cristologico

Nell'edificio della cristologia che così si delineava si inserì un elemento di ellenismo che ritarderà la soluzione del problema cristologico fino a Nicea. Si tratta della valenza prevalentemente cosmologo che il logos aveva nella speculazione greca. Questo portò con sé un inevitabile calo della tensione soteriologica del messaggio cristiano a vantaggio della sua dimensione cosmologica e rivelatrice. L'attrazione reciproca tra logos e creazione tende in forza dell'identificazione operata tra i concetti di logos è figlio di Dio allegare la generazione del figlio alla creazione del mondo intaccandone così il carattere necessario ed eterno. Il verbo tipico che esprime la funzione del logos in questo contesto è kosmein: ordinare e produrre il cosmo. Il passo di Pr 8,22 “Il signore mi ha creato come principio delle sue vie per le sue opere” Ehi con l'enorme sviluppo che prende a partire da Giustino fino agli ariani serve ad ammantare questa dottrina dell'autorità indiscussa della Bibbia. Origine non ha dubbi che quello che i greci hanno detto del logos come intermediario della creazione non solo concorda con la legge ma anche con il Vangelo. Nella speculazione filosofica del tempo c'era una figura che era destinata ad esercitare un'irresistibile attrazione sul logos figlio di Dio dei cristiani il cosiddetto Dio secondo. Fu una specie di risucchio dell'ellenismo dal quale il pensiero cristiano fece non poca fatica a liberarsi. La figura del secondo Dio o Dio di secondo rango praticamente nasce nelle pagine del Timeo anche se il nome è desunto da una fonte pseudo platonica. Il platonismo di mezzo si impadronì di essa dandole un enorme sviluppo e identificandola volta a volta con il mondo intellegibile, con il logos, con il demiurgo platonico e con l'anima del mondo. Più tardi essa viene a costituire la seconda impostosi della triade neoplatonica. Si tratta di un'entità metafisica che funge da intermediario tra Dio e il mondo materiale, in vista della sua creazione, o del suo ordinamento. Tendenzialmente, ha lo scopo di risparmiare al Dio trascendente il contatto degradante con il mondo. Filone mette in rilievo l'inferiorità ontologica rispetto al padre dell'universo, usando per lui il titolo di Theos (senza articolo) e riservando invece l'espressione ho theos (con l’articolo) al solo Dio supremo. Questi è veramente Dio, l'altro è solamente divino. Celso, riferendosi alla stessa entità metafisica del deutero Theos, Ehi lo definisce un semidio e dice apertamente che da essa hanno tratto spunto i cristiani nel definire Cristo figlio di Dio. La ragione ultima dell'inferiorità di questo Dio intermediario rispetto al padre-destinata a giocare in seguito un ruolo decisivo nelle discussioni ecclesiastiche-è formulata chiaramente da Tolomeo nella sua lettera a Flora: “questo Dio sarà inferiore al Dio perfetto… in quanto è generato e non ingenerato”. 

Gli autori cristiani commisero l'imprudenza di servirsi di questa figura intermediaria per presentare agli interlocutori greci la persona del figlio di Dio, pensando di facilitare ad essi, in tal modo, la fede nella divinità di Cristo. Il primo a gettare un ponte tra le due realtà fu Giustino, che parla del figlio che occupa “il secondo posto dopo il Padre”, seguito da Clemente Alessandrino entrambi indipendenza dalla fonte pseudo platonica. In Origene il titolo di deutero Theos occupa un posto di particolare rilievo e condiziona senza dubbio, il suo subordinazionismo cristologico, anche se lui stesso che prepara il superamento di tale subordinazionismo, mediante il concetto della generazione eterna del figlio, al quale ci si ispirerà, in seguito, nella lotta contro l'arianesimo.

L’arianesimo e la catarsi cristiana dell’ellenismo

Sullo sfondo teologico ora delineato, si situa la crisi Ariana. Nel suo aspetto positivo (la verità dell’eresia) Ehi essa consiste nell'aver costretto la chiesa ad aprire gli occhi su una situazione di incertezza e di equivoco, che si trascinava da tempo nel cuore della sua teologia. Nel suo aspetto negativo, essa appare un tentativo di canonizzare quello che era semplicemente un ritardo della teologia rispetto alla fede, erigendo a dogma esplicito la credenza in Cristo come Dio di secondo rango. L'obiezione metafisica dell'ellenismo alla divinità di Cristo rivive dell'arianesimo e tocca il suo apogeo, proprio in quanto in esso è portata fino alle ultime conseguenze l'identificazione del figlio di Dio con il deutero Theos medioplatonico. Quello che di nuovo ario apporta nella discussione e l'utilizzazione massicce dell'argomento tratto dall'opposizione tra il padre e il figlio, Per stabilire la diversità dell'essenza tra i due. Un argomento maturato in seno all’ellenismo fin da Platone ma che solo ora viene esplicitamente utilizzato come obiezione alla divinità di Cristo. Tutto questo è stato studiato e non è cosa nuova. L’arianesimo non è comprensibile se non come approdo dell'impostazione medio platonica del problema cristologico iniziata dagli apologisti. Ario non è riuscito a superare la figura mitica del deutero Theos, Ehi ma la consacrata; Ehi non è riuscito a tracciare una linea di demarcazione unica sull'essere, ma ha mantenuto le due linee e, con ciò, la tripartizione dell'essere in: essere trascendente, essere creato e essere intermediario. La famosa espressione Ariana: “c'era un tempo in cui non c’era” ripresa dalla discussione medio platonica, dove essa era riferita al cosmo-figlio Di Dio del Timeo, cioè, in sostanza, al Dio secondo. Il titolo tecnico di Dio secondo continua ad essere utilizzato per il Figlio da Eusebio di Cesarea, vicinissimo ad Ario, in dipendenza sì da Origene, ma anche al medioplatonismo. 

Da Attanasio veniamo sapere che gli ariani avevano sposato in pieno l'idea platonica del figlio come ministro, o intermediario, che crea il mondo guardando e attingendo i modelli nel padre. E ciò non in base alle indicazioni della Bibbia, quanto piuttosto per la motivazione platonica che Dio non può creare direttamente il mondo, ma ha bisogno di un intermediario che gli eviti il contatto degradante con la materia. Atanasio non ha torto quando conclude: “queste affermazioni intorno al logos di Dio non sono proprie della dottrina cristiana, ma di quella dei greci”. 

Non è con l'arianesimo che avviene la rottura dello schema medio platonico, ma con Nicea. E la teologia dell’homousios, del gentium non factus, che rimuove per sempre il principale ostacolo dell'ellenismo al riconoscimento della piena divinità di Cristo e opera la catarsi cristiana dell'universo metafisico dei greci. Con tale teologia, una sola linea di demarcazione tracciata sulla verticale dell'essere e questa linea non divide il Figlio dal Padre, ma il Figlio dalle creature. “Consostanziale (homousios) con il Padre sta a significare che il Figlio di Dio non ha alcuna somiglianza con le creature fatte, ma che è simile in tutto al Padre che lo ha generato e che non è da altra ipostasi o sostanza che da quella del Padre” (Eusebio di Cesarea). 

Lo stacco dalle creature è tanto forte che occorrerà un altro consiglio, quello di Calcedonia, per riportare un più giusto equilibrio, in una visione più ampia, nella quale il Cristo apparirà in tutto simile a noi, oltre che in tutto simile al Padre: consostanziale con il Padre e consostanziale con noi.

L’influsso dell’argomento soteriologico nella definizione della divinità di Cristo

Attanasio sposta l'interesse della teologia dal cosmo all'uomo, dalla cosmologia alla soteriologia, Atanasio valorizza i risultati elaborati nella lunga battaglia contro lo gnosticismo, battaglia che aveva portato a concentrarsi sulla storia della salvezza e della redenzione umana. Egli dà a tutta la teologia una colorazione antropologica e soteriologica. Cristo non si colloca più, come nell'epoca degli apologisti, tra Dio e il cosmo, ma piuttosto tra Dio e l'uomo. Che Cristo sia mediatore non significa che egli sta tra Dio e l'uomo ma che unisce Dio e l'uomo. In lui Dio si fa uomo e l'uomo si fa Dio, cioè viene divinizzato. Il cosmo non scompare dall'orizzonte della cristologia, ma essa è in funzione dell'uomo e della sua salvezza, non viceversa lo schema nuovo del reale non sarà più quello greco: Dio- universo-uomo,  ma sarà quello biblico: Dio-uomo-universo. L'universo è per l'uomo, non l'uomo per l'universo.

Secondo Atanasio la salvezza esige che l'uomo non sia assunto da un intermediario qualsiasi, o da un qualsiasi essere, ma che sia assunto da Dio e che sia unito a Dio: “se il Figlio è una creatura l'uomo rimarrebbe mortale, non essendo unito a Dio…  l'uomo non sarebbe divinizzato se il verbo che divenne carne non fosse della stessa natura del Padre”. 

L'incidenza dell'esperienza di salvezza nell'evoluzione del dogma della divinità di Cristo è indubbia. Sarebbe però, errato concepire tale incidenza a senso unico. Se è vero che l'esperienza di Cristo come Salvatore e divinizzato store influisce sul processo teologico di chiarificazione della sua divinità, è anche vero che il processo teologico contribuisce a plasmare e rendere cosciente l'esperienza di salvezza.

Definire il figlio con sostanziale con il padre significava collocarlo a un livello tale per cui nulla assolutamente poteva rimanere fuori dal suo raggio d'azione. Significava stabilire il significato o la rilevanza universale della persona di Cristo, non solo sul piano ontologico, ma anche sul piano soteriologico.

“L'onnipotente Santissimo verbo del padre, penetrando tutte le cose e arrivando ovunque con la sua forza da luce a ogni realtà è tutto contiene abbraccia in sé stesso. Non c'è essere alcuno che si sottragga al suo domino. Tutte le cose da lui ricevono interamente la vita e da lui sono mantenute in essa: ehm le creature singole nella loro individualità e l'universo creato nella sua totalità” (Atanasio).

In Cristo e l'essere è il significato di Dio che si fa presente all'uomo e al mondo, non un intermediario: questo è il senso profondo del consustanziale di Nicea. 

Il problema della preesistenza di Cristo



sabato 9 novembre 2024

IN MEMORIA DI GUSTAVO GUTIERREZ, IL TEOLOGO DEL DIO LIBERATORE

 






Paolo Cugini

Il 22 ottobre 2024, Gustavo Gutiérrez, “il teologo del Dio liberatore”, è morto a Lima all’età di 96 anni, come lo definì il suo amico e connazionale, l’antropologo e scrittore José María Arguedas. Con la sua morte, la teologia cristiana perde uno dei suoi riferimenti più importanti, creativi e riconosciuti e la teologia della liberazione perde colui che è considerato il padre del nuovo paradigma teologico liberatore in America Latina, che ha rappresentato una vera rivoluzione epistemologica e metodologica nel discorso religioso e nella prassi dei cristiani con importanti ricadute nelle scienze sociali. 

Nel prologo al libro del teologo peruviano “La densità del presente” (Seguimi, Salamanca, 2003) Casiano Floristán traccia il seguente profilo dell'amico e collega Gustavo: “Veloce e nervoso, piccolo di statura, con le lenti spesse e analisi e giudizi taglienti, con sguardo scherzoso e verbo debordante […]. Gustavo ha una solida formazione umanistica, letteraria e teologica. La sua formazione universitaria francese è evidente nella chiarezza, sagacia e umorismo con cui affronta i temi”. 


Formazione interdisciplinare

Gustavo Gutiérrez ha avuto un'eccellente formazione interdisciplinare. Ha studiato medicina presso l'Universidad Nacional Mayor San Marcos (Lima), filosofia e psicologia presso l'Università Cattolica di Leuven (Belgio), e teologia presso la Facoltà di Lione (Francia) e presso l'Università Gregoriana. (Roma). È stato professore di teologia alla Pontificia Università Cattolica del Perù e all'Università di Notre Dame (Stati Uniti) e fondatore dell'Istituto Bartolomé de Las Casas a Lima. Ha svolto il ministero pastorale nella parrocchia di Cristo Redentore, nel quartiere popolare di Rimac (Lima), dove ha conosciuto e sperimentato in prima persona la povertà, che ha sempre considerato frutto di un'ingiustizia strutturale, e ha praticato la solidarietà con i settori più vulnerabili. Questa esperienza è alla base dell'opzione per le persone, i gruppi e i popoli poveri, che nei suoi scritti e nella sua vita egli ha elevato a categoria di verità teologica radicata nel Dio della speranza, a partire da Gesù di Nazaret, il Cristo liberatore. e virtù etiche ed evangeliche. Queto è uno degli aspetti più significativi che segna la differenza tra i teologi occidentali e quelli latinoamericani. Mentre i primi sono essenzialmente cattedratici, senza un contatto pastorale con la realtà, i teologi latinoamericani scrivono quello che vivono. Per questo i libri della teologia della liberazione sono alla portata di tutti e tutte, perché parlano del respiro del popolo di Dio.

Gutierrez Partecipò al Concilio Vaticano II, insieme al teologo cileno Segundo Galilea, entrambi consiglieri del vescovo cileno Manuel Larraín, allora presidente del CELAM ed evidenziarono la necessità di celebrare la Seconda Conferenza dell'Episcopato Latinoamericano, avvenuta nel 1968. a Medellín. Anche se valutava molto positivamente l'orientamento riformatore del Consiglio, Gutiérrez non era del tutto soddisfatto dei suoi risultati, che considerava troppo eurocentrici. Partecipò come consulente teologico al Congresso di Medellín, che realizzò un cambiamento radicale dalla Chiesa coloniale al cristianesimo liberatore.



Teologia della liberazione: cambiamento di paradigma

Nel 1971, il Centro di Studi e Pubblicazioni di Lima pubblicò: Teologia della Liberazione. Prospettive. la sua opera più emblematica e influente sulla scena teologica mondiale. 

L'inizio dell'edizione originale della “Teologia della Liberazione”, costituisce la migliore dimostrazione che questo libro inaugura un cambiamento radicale di paradigma teologico in America Latina, che definisce “subcontinente di oppressione e di espropriazione”:

“Questo lavoro tenta una riflessione, basata sul Vangelo e sulle esperienze di uomini e donne impegnati nel processo di liberazione, in questo subcontinente di oppressione e di espropriazione che è l’America Latina. Riflessione teologica condivisa nello sforzo di abolire l'attuale situazione di giustizia e di costruire una società diversa, più giusta e umana. Il cammino dell'impegno liberante è stato intrapreso da un numero crescente di cristiani: dalle loro speranze e riflessioni è responsabile il valore di queste pagine. Il nostro desiderio è non tradire le loro esperienze e i loro sforzi per chiarire il significato della loro solidarietà con gli oppressi”.

Gutiérrez definisce la teologia come riflessione critica della prassi storica alla luce della Parola, come teologia della trasformazione liberatrice della storia dell'umanità, che non si limita a pensare il mondo, ma è un momento del processo di trasformazione del mondo, che si apre al dono del Regno di Dio: “nella protesta contro la dignità umana calpestata, nella lotta contro l’espropriazione della stragrande maggioranza degli uomini, nell’amore che libera, nella costruzione di una società nuova, giusta e fraterna” . 




La teologia della liberazione unisce armonicamente pensiero e vita, teoria e prassi, rigore metodologico e denuncia profetica delle ingiustizie, discorso religioso e scienze sociali, salvezza e giustizia, studio e preghiera, spiritualità liberatrice e impegno sociale, contemplazione e azione, amore universale e opzione preferenziale per la persone e gruppi poveri. È un nuovo modo di fare teologia, di sentire, di vivere e di pensare Dio dal “rovescio della storia” con ricadute sociali, politiche ed economiche destabilizzanti per il sistema neocoloniale e neoliberista latinoamericano. Un sistema che Papa Francesco definisce “la globalizzazione dell’indifferenza”, che ci rende incapaci di piangere per il dramma altrui e di prenderci cura delle persone più vulnerabili.

La teologia, per Gutiérrez indica l'incontro con il Dio dei poveri e la sete di giustizia manifestata da Gesù nel discorso della montagna. Ce ne fossero dei teologi alla Gutierrez: meno cattedratici e più umani, vicini al popolo di Dio. 


giovedì 7 novembre 2024

LIBRO DI OMELIE DELL'ANNO C

 



CUGINI, Paolo. Come la pioggia e la neve. Omelie per l’anno C. Bologna: Dehoniane, 2024. 



INTRODUZIONE



Il contatto quotidiano con il cammino delle comunità ecclesiali dovrebbe condurre coloro che hanno una responsabilità pastorale, ad un’attenzione sempre più attenta e profonda alla Parola di Dio e al desiderio di trasmetterla. È, infatti, quello che ci dice il profeta Isaia nel versetto dal quale ho estratto il titolo di queste omelie dell’anno liturgico C. 

Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo

e non vi ritornano senza avere irrigato la terra,

senza averla fecondata e fatta germogliare,

perché dia il seme a chi semina

e il pane a chi mangia,

così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca:

non ritornerà a me senza effetto,

senza aver operato ciò che desidero

e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata (Is 55, 10-11).

C’è una fiducia impressionante nell’efficacia della Parola di Dio, espressa da queste profondissime parole del profeta. Fiducia che non può che venire dall’esperienza personale di Isaia, dalla sua relazione con il Signore, da tutto ciò che l’ascolto attento della sua Parola ha prodotto nella sua vita e nel cammino del popolo di Israele. Fiducia che diventa nel lettore un impulso a divenire annunciatore della Parola, perché solo in questo modo potrà generare frutti di pace e di giustizia in color che l’ascoltano e l’accolgono. 

Chi accompagna le comunità cristiane, si accorge che l’esempio del profeta Isaia è illuminante. Infatti, l’ascolto personale della Parola di Dio, che aiuta a maturare una mistica e una comprensione sempre più profonda del Mistero che ci circonda e del quale facciamo parte, è importante che sia accompagnato dall’ascolto della realtà. La Parola di Dio che si è manifesta in Gesù Cristo è come una lampada che illumina il nostro mondo e ne svela il senso autentico. L’evangelista Giovanni, proprio nei primi versetti del Prologo, ci ricorda che: “Il Verbo era la luce vera che illumina ogni uomo” (Gv 1,9). È la vita di Gesù che è luce per noi (cfr. Gv 1, 4), che illumina il vissuto quotidiano e permette di togliere dalle tenebre il nostro cammino. 

Storia e Parola, dunque, si illuminano a vicenda in un duplice percorso che può essere complementare. C’è infatti, chi inizia dall’ascolto della Parola per illuminare la propria vita e il cammino della comunità di appartenenza: è questo il metodo che incontriamo nelle nostre comunità parrocchiali. C’è, invece, che inizia dal proprio vissuto, dalla vita come criterio per comprendere la Parola. Quest’ultimo metodo, conosciuto come lettura popolare della Bibbia, è in uso soprattutto nelle comunità di base in America Latina. Percorsi che hanno diversi punti di partenza, ma che tendono allo stesso obiettivo, che consiste nel permettere alla Parola di illuminare la vita. 

La predicazione domenicale s’inserisce proprio a questo livello, tentando di offrire delle chiavi di lettura alle comunità riunite a celebrare il giorno del Signore e in ascolto della Parola per comprendere meglio gli eventi della storia quotidiana in cui siamo inseriti. Per questo motivo, come lo scorso anno, le omelie che presento, più che essere un prodotto ben definito, sono una specie di canovaccio, che ha l’intento di orientare coloro che hanno una funzione di guida della comunità e può essere utilizzato in vari contesti. 

L’anno liturgico C ha, come punto di riferimento, il Vangelo di Luca. Le omelie che presento sono più che altro delle riflessioni sul Vangelo della domenica, che offre il tema delle letture ascoltate. L’evangelista Luca presenta la propria opera come un cammino, una salita verso Gerusalemme, che si radicalizza a partire da 9,51, quando il testo afferma che: “Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme “. In questo cammino, incontriamo alcuni testi che sono specifici di Luca, che manifestano la sua sensibilità su alcuni temi, come la misericordia e il perdono. Non a casa la parabola del figliol prodigo (Lc 15, 11-32) e il buon samaritano (Lc 10, 29-37) sono proprio di Luca. Forse, però, l’aspetto più interessante e originale è l’attenzione che Luca dà alla presenza delle donne nella comunità di Gesù. Solamente nel Terzo Vangelo incontriamo passaggi significativi che mostrano come, nel progetto di Gesù, la comunità non era formata solamente da uomini, ma anche da parecchie donne (Lc 8,1-3).

È con queste sensibilità specifiche di Luca, che diventa interessante il tipo di Luce che dal suo Vangelo promana per illuminare il cammino delle nostre comunità. Come sempre, è la disponibilità al cambiamento, a lasciarsi contaminare positivamente dalla novità che il Verbo incarnato porta dentro la storia, che dipende la possibilità del Regno di Dio realizzarsi tra di noi. In ogni modo, nonostante le nostre resistenze e le nostre paure, possiamo stare tranquilli, perché: “Come la pioggia e la neve… così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto” (Is 55, 10s). Buona lettura e buon cammino. 


Lo puoi acquistare qui:

https://www.dehoniane.it/9788810986554-come-la-pioggia-e-la-neve 


mercoledì 6 novembre 2024

Il Forum dell'acqua consegna all'IBAMA la Lettera sulla siccità

 





Paolo Cugini

Il 5 novembre, i rappresentanti del Forum dell'Acqua hanno consegnato ufficialmente all'Istituto Brasiliano dell'Ambiente e delle Risorse Naturali Rinnovabili (IBAMA) la Lettera del Forum dell'Acqua dell'Amazzonia alla società e ai responsabili politici locali. Il documento è stato consegnato al sovrintendente dell'istituzione, Joel Bentes de Araújo, che ha ricevuto il Collettivo presso la sede dell'istituzione, situata a Manaus. 

Nel corso dell'evento, il sovrintendente ha presentato al gruppo le strutture dell'IBAMA e il team di agenti interni, spiegando il ruolo dell'istituzione nel territorio amazzonico. Nel corso della mostra ha anche risposto alle domande poste dai rappresentanti del Forum dell'Acqua. La Carta è stata consegnata presso la sede ufficiale, dove sono stati brevemente presentati i punti salienti del documento. L’inizio della Carta esprime preoccupazione per la preservazione dei biomi dell’Amazzonia e del Pantanal, essenziali per la vita sul pianeta, ma che sono sull’orlo del collasso. Le regioni subiscono impatti devastanti sulla biodiversità, sui servizi ecosistemici e sulle popolazioni umane, in particolare sui gruppi sociali più vulnerabili.

Tra le principali richieste c'è quella di chiusura dell'autostrada BR 319 e la revoca della Progetto di Legge (PL) 2168/2021. Gli studi dimostrano che l’autostrada BR 319, che collega Manaus a Porto Velho, intensificherà la devastazione della regione, aprendo la strada alla deforestazione, agli incendi, all’accaparramento di terre, alla criminalità organizzata e alla distruzione delle sorgenti. Il PL 2168/21 danneggerà le Zone di Protezione Permanente, APP. Con il disegno di legge le grandi imprese agroalimentari e zootecniche potranno insediarsi in queste aree, indebolendo le foreste già protette dalla legge.

Un altro punto rilevante del documento è l'urgenza di realizzare la rimunicipalizzazione dei servizi di approvvigionamento e fognatura nella città di Manaus. La concessione dei servizi al settore privato è avvenuta nel 2000, ma il rendimento delle società che ne hanno assunto la gestione è stato deludente, non rispondendo ai bisogni della popolazione di Manaus. Il concessionario Águas de Manaus, di proprietà del gruppo imprenditoriale Aegea Saneamento, è oggetto di continue critiche popolari e deve affrontare centinaia di cause legali in tribunale. La mancanza di acqua potabile e l’assenza di servizi fognari non solo violano i diritti fondamentali dei cittadini, ma nuocciono anche alla salute della popolazione e deteriorano l’ambiente.

Il sovrintendente dell'IBAMA ha promesso di analizzare le richieste del Water Forum e di lavorare secondo le sue possibilità per garantire che vengano soddisfatte. La consegna della Carta all'istituzione rappresenta uno sforzo da parte del Collettivo per influenzare le politiche pubbliche di portata federale. Sono previste diverse visite dell'organizzazione ad altri organismi federali con sede a Manaus, con l'obiettivo di sensibilizzare le autorità pubbliche sulla devastazione dell'ambiente in Brasile e in Amazzonia.

Fonte: Fórum das Águas - Amazonas 


lunedì 4 novembre 2024

Dal caos al cosmo, ossia: della durezza

 





Paolo Cugini


Come descrivere il cammino della cultura occidentale se non come un cammino di semplificazione e di progressivo irrigidimento? C’è stata come un’intuizione originaria che ha percepito la possibilità di vivere in modo tranquillo organizzando l’universo, ordinandolo, toglierlo, cioè dal caos apparente. Potremmo leggere la nascita della filosofia greca proprio in questa prospettiva: l’esigenza di mettere ordine al caos apparente. Anche se Eraclito aveva mostrato nei suoi aforismi di sapore mistico che era difficile porre ordine ad una realtà in continuo movimento e che sfugge alla possibilità organizzativa della mente, la direzione presa è stata tutta verso la ricerca di punti fermi e chiarificatori. 

In primo luogo, c’è stata la ricerca di un principio primo, che fosse riferimento di tutta la realtà, un principio come sforzo razionale capace di porre un fondamento nel mondo. Anche questo è un dato interessante. La cultura occidentale si struttura a partire dalla ragione e non sul sentimento, sui calcoli e non sull’arte, sull’apollineo e non sul dionisiaco. Sono contrapposizioni che escludono una sintesi, una possibilità di convivenza, contrapposizioni che, dunque, indicano una scelta ben precisa mossa dall’istinto di sopravvivenza, che evita complicazioni, perdite di energia e punta all’evidenza immediata. 

Lo sforzo ordinatore della realtà ha prodotto con il tempo, un modo rigido di vedere il mondo. Se ogni effetto ha una causa, così pensano i filosofi, allora il centro di questo processo razionale non può che produrre una serie di principi chiarificatori la cui evidenza costringe il pensiero a riconoscerne la validità. Il principio di non contraddizione è nella direzione del principio d’identità: una cosa non può che essere quella cosa. È tutto molto semplice e chiaro, è tutto molto logico. Se piove significa che ci sono le nubi e quando sorge il sole significa che è terminata la notte e che ogni giorno sarà così. Sono le conclusioni che si deducono dalle cause, che permettono la certezza delle affermazioni. C’è una verità che viene verso di noi attraverso le sensazioni, che ci permettono di astrarre dalla realtà idee certe e sicure per sempre. Le argomentazioni di tipo apodittico hanno strutturato la c conoscenza occidentale, da qualsiasi parti si osservi il fenomeno. Infatti, sia la conoscenza induttiva che deduttiva forniscono lo stesso tipo di materiale conoscitivo, vale a dire verità necessarie per la vita. 

Con il tempo, la grammatica, la logica, la matematica sono le materie che vengono insegnate nelle scuole, che si sviluppano nel medioevo e che formano le prime generazioni di studenti universitari. Apprendere le regole di come si osserva in un determinato modo il mondo è fondamentale per imparare a difendersi e a proteggersi dalla realtà. 

Ordinare la realtà, dividerla in scomparti, determinare ciò che è maggiore e minore, importante e meno importante, spingere la ragione sino a comprendere il mondo con categorie razionali precostituite. È questo il cammino del pensiero Occidentale, che per secoli ha perfezionato una modalità specifica di relazionarsi con il mondo, mettendo da parte i sentimenti, promovendo percorsi di semplificazione e organizzazione. La cultura moderna ha prodotto sistemi di pensiero così sofisticati da pensare di credere di essere riuscita a comprendere tutto il reale. Quando si leggono questi tentativi viene un sorriso e, allo stesso tempo, un sentimento di tristezza perché si coglie la boria di un pensiero arrogante che ha pretesa di capire il mondo, di dire in che direzione deve andare e, soprattutto, l’arrogante pretesa di definirlo nei minimi dettagli. Colpisce la sfacciataggine di un metodo strutturato non sul desiderio di conoscere l’universo, ma d’interpretarlo.

Questo modo di pensare il mondo e le cose produce un materiale rigido, duro, statico e, allo stesso tempo, persone rigide, intolleranti, incapaci di accettare il pensiero diverso. Si può leggere in questa prospettiva l’incontro del mondo Occidentale con le altre culture. La presunzione di possedere la narrazione giusta e vera ha fatto cadere nel giudizio di ignoranza tutti quei popoli che nei secoli avevano elaborato una narrazione differente, considerata meno razionale e, dunque, ingenua, non all’altezza. Questo giudizio negativo ha giustificato percorsi d’imposizione, di violenze efferate e, soprattutto, la distruzione della cultura dell’altro. Il pensiero rigido non riesce a porsi in un atteggiamento di ascolto, di accettazione della verità dell’altro: è intollerante. Quando la cultura non viene distrutta, viene manipolata. È ciò che la ricercatrice aborigena Linda Tuhiwai Smith ci ha recentemente descritto su ciò che è avvenuto con la narrazione culturale del proprio popolo. Non solo non è stata accettata, ma addirittura, trasformata. Gli invasori si sono impossessati della narrazione culturale incontrata, modificandola, trasformandola, in una parola: deturpandola. I problemi si complicano quando la narrazione forte diventa un sistema politico in cui le leggi hanno lo stesso spessore del sistema culturale dominante. Quando, poi, il sistema politico forte si allea ad una religione, la miscela di potere e violenza diviene inarrestabile. È ciò che l’Occidente ha potuto accompagnare nel periodo del Sacro Romano Impero, che in nome di Dio ha costretto popoli a convertirsi all’unica religione e a prostrarsi all’unico imperatore, naturalmente cristiano. 


lunedì 28 ottobre 2024

Come un faro nel buio | Preghiera in Canto


 


Presentazione:

Francesco Venturini e Gloria Bedocchi sono, rispettivamente, un bancario e una farmacista, due amici che hanno sempre condiviso, oltre ai valori della Fede Cristiana, una grandissima passione per la musica, rispettivamente lui come autore di testi e lei come compositrice (in passato, ha fatto parte come cantante di diversi cori polifonici).

Durante un periodo della vita per loro non facile, hanno deciso di provare a coltivare la loro Fede Cristiana in modo ancora più attivo e, facendo leva sulla loro passione per la musica, è nata così il loro canto “Come un faro nel buio” (successivamente anche approvato dall’Ufficio Liturgico Diocesano dell’Arcidiocesi di Bologna), un canto con cui hanno voluto rendere grazie al Signore, che ha sempre per loro rappresentato una guida sicura per seguire per la giusta via da percorrere.

 

Come un faro nel buio

(testo di Francesco Venturini, melodia di Gloria Bedocchi, elaborazione e armonizzazione di Alessandra Mazzanti)

 
A Te, Signore, ci rivolgiamo,

con tutto il cuore noi Ti chiediamo

di perdonare i nostri peccati,

e grazie a Te saremo salvati…

 

Rit.

Come un faro nel buio sei per noi, Signore,

che ci illumina sempre nelle notti più oscure…

Quando noi Ti preghiamo vieni con la Tua luce

a indicarci la strada e a donarci la pace…

 

La Tua Parola è fonte di vita

di verità e di gioia infinita…

A chi la osserva Tu sei vicino,

In ogni istante lungo il cammino…

 

Sei Tu la sola via da seguire,

che non dobbiamo mai abbandonare…

Senza di Te noi siamo perduti:

vaghiamo disperati e smarriti…

 

martedì 22 ottobre 2024

LA CRISI DELLA CRISTIANITA’ OCCIDENTALE TRA SMASCHERAMENTO ED ERMENEUTICA

 






 

Paolo Cugini

 

Gli ultimi decenni sono stati un progressivo processo di smascheramento prodotto dalla cultura occidentale, che ha ridotto il cristianesimo a forma vuota, inutile per la vita. Il fallimento delle metanarrazioni moderne, per dirla con Lyotard, hanno manifestato il limite del metodo deduttivo, incapace di cogliere la realtà. Per secoli la cultura Occidentale ha preteso di orientare la realtà a partire da schemi concettuali predefiniti. La profonda crisi climatica che sta devastando il pianeta, la costante crisi economica frutto del modello neoliberale che sta aumentando giorno dopo giorno il fosso da i pochi ricchi e una moltitudine di poveri, la crisi delle democrazie segnate da un’avanzata impressionante degli schieramenti politici di estrema destra, sono alcuni sintomi di un crollo definitivo della proposta moderna, della possibilità di controllare l’evoluzione della storia a partire da idee predefinite. In questo percorso la Chiesa ha le sue responsabilità e, per questo, la crisi globale la sta intaccando in profondità. Tutte le volte che si è irrigidita trincerandosi nella difesa di principi assoluti, ha perso la possibilità di mettersi in ascolto della realtà e percepire la voce del Verbo Incarnato. Si è lentamente sfaldato, sgretolato il castello esteriore di sicurezze precostituite, che non ha retto all’impatto della realtà, che ha evidenziato il fallimento di un metodo, di una modalità di abitare la realtà. Processo di smascheramento che ha una duplice direzione. Da un lato rivela il fallimento di un’idea; dall’altro indica un cammino. Per questo motivo la fase di passaggio che stiamo vivendo è estremamente delicata. Solo rendendoci conto del cambiamento in atto possiamo avere il coraggio di cambiare rotta.

Accanto allo smascheramento, l’occidente ha vissuto anche l’epoca dellermeneutica, che ha progressivamente indebolito la forza della verità metafisica. È questa una chiave di lettura importante, necessaria per cogliere la direzione che sta prendendo la cultura Occidentale. L’ermeneutica ha sostituito la metafisica: è questo uno degli esiti, a mio avviso positivi, del cambiamento in atto. I sistemi rigidi elaborati nell’epoca moderna, hanno mostrato il grande limite di irrigidire la verità, mostrandone solo un aspetto, che emerge dalla definizione. La verità manifestata dal Mistero è per sua natura molteplice, poliedrica, come ho già ricordato nella pima parte. La definizione del Mistero può avere un aspetto pedagogico, ma non può avere la presunzione di dire tutto il Mistero. Se questo discorso vale in genarle, ancora di più assume un significato quando in gioco c’è la Verità del Mistero manifestata da Gesù Cristo, il Verbo che si è fatto carne, è venuto ad abitare in mezzo a noi, camminando con noi. In questa prospettiva, la storicità dell’evento non può essere dimenticata, per non correre il rischio, come di fatto è avvenuto in passato con il pensiero metafisico, di ridurre l’evento dell’Incarnazione ad un concetto astratto. La rivelazione del Mistero in Gesù Cristo, richiede un costante sforzo ermeneutico, perché la verità, d’ora innanzi, prima di essere un concetto astratto, è una persona viva che cammina con noi, che dev’essere accolta così com’è e come si manifesta e non intrappolata in rigidi rivestimenti concettuali. È proprio questo uno degli aspetti più positivi dell’attuale contesto post-moderno: la possibilità di pensare la verità nel suo contesto storico e non di coglierla come un’idea astratta. Tutto ciò ha conseguenze immediate nel camino della comunità, conseguenze che analizzeremo nella terza parte.

Che cosa lascia dietro di sé la scomparsa della cristianità? Un vuoto incolmabile. Forse, soprattutto, la percezione di un tempo perduto in cose senza senso, soprattutto da parte di coloro che ci hanno creduto, di coloro, cioè, che hanno creduto che la forma cristiana fosse portatrice del divino, di qualcosa, dunque, di assoluto, eterno. Possiamo, invece, tranquillamente dire, che si è trattato di una grande mistificazione, di un enorme sopruso, di una grande manipolazione del Mistero. Abbiamo trascorso secoli identificando il Mistero rivelato in Gesù Cristo, con quel sacro e quella struttura religiosa che Gesù era venuto a scardinare. Come ci dimostrano alcuni studi di Patristica e di storia della liturgia, in pochi decenni abbiamo rimesso le cose apposto, abbiamo risistemato in ordine quello che Gesù aveva, a detta loro, disordinato, sconquassato, destrutturato. Sono tutti sinonimi di un unico processo metto in atto da Gesù per manifestare la grande manipolazione realizzata dagli uomini del culto in Israele: identificare il Mistero con il sacro, la religione con la fede, le tradizioni umane con la Parola di Dio. Secoli di manipolazioni sacrali hanno prodotto una religione materiale dominata da una casta sacerdotale che ha ridotto la religione a pura formalità rituale, impedendo in questo modo al popolo di Dio di fare esperienza del Volto del Mistero manifestato in Gesù.  

Con gli occhi di poi possiamo dire: non era proprio da buttare via il grande critico della cristianità: Friedrich Nietzsche. Aveva già detto tutto, o quasi. Aveva percepito in profondità la fine dell’epoca cristiana e intravisto la nuova, in cui gli uomini avrebbero dovuto imparare a vivere senza appoggiarsi a Dio, ovvero, al Dio inventato dagli uomini, al dio analgesico, al rifugio dalla durezza della vita. Aveva capito che il Dio costruito nei secoli dall’occidente era ormai morto. Nietzsche percepiva tutta la tragicità di questo annuncio, anche perché era consapevole del disastro che la struttura religiosa aveva provocato nell’anima d’intere generazioni. Secoli di pietismo religioso hanno lasciato il segno: era questa la preoccupazione di Nietzsche. Secoli di fuga dalla realtà, hanno manifestato un’infedeltà alla terra, per dirla sempre con Nietzsche, che ha avuto come conseguenza immediata la creazione di una religione incapace di dialogare con il mondo. Lo smantellamento delle strutture forti della modernità permette alle attuali generazioni di uscire dal tempio per assaporare la vita e costruire percorsi in cui sia visibile la fedeltà alla terra, il rispetto delle culture altre, la creazione di spazi affinché tutti e tutte possano manifestare la loro diversità senza preclusioni o preconcetti.

 

Dom Evaristo Spengler: “Dialogo con coloro che hanno un’altra forma di presenza divina nella loro vita”

 




 

Testo di Padre Luis Miquel Modino

Traduzione: Paolo cugini

 

Il 20 ottobre 2024, Giornata Missionaria Mondiale, Piazza San Pedro ha accolto la canonizzazione di 14 nuovi santi, tra cui San Giuseppe Allamano , fondatore dei Missionari della Consolata. Il miracolo della canonizzazione è avvenuto all'indigeno Sorino Yanomami, della missione Catrimani, nella diocesi di Roraima.

Opzione per le popolazioni indigene

Secondo il vescovo di Roraima, dom Evaristo Spengler, presente alla celebrazione, la diocesi di Roraima, fin dalla sua creazione come prelatura, “ ha fatto un'opzione chiara per i popoli indigeni, questo con molta persecuzione, con molto sacrificio ” , perseguitati e minacciati di morte, compresi alcuni vescovi. “Significa che l'opzione ha avuto un costo altissimo e ha un costo ancora oggi” ha sottolineato il vescovo.

“Il miracolo avvenuto ad un indigeno yanomami, e operato dal fondatore dei Missionari della Consolata, José Allamano, oggi santo, è per noi simbolico. Vuol dire che Dio ci sta dando un segno che questa è la strada, l' alleanza con i popoli indigeni, con i più fragili della società , questa è la strada dove si realizza il Regno di Dio in questo momento, dove Dio vuole la sua Chiesa”, ha evidenziato Dom Evaristo Spengler.

 

Valorizzare il popolo Yanomami

Il miracolo è avvenuto in una missione dove i Missionari della Consolata arrivarono nel 1965. Lì svolgono una missione di presenza, senza celebrare sacramenti con gli indigeni, un atteggiamento che «vuole dirci che Dio vuole il dialogo e il rispetto per chi è diverso ”, secondo il vescovo di Roraima. Ha detto che “ essere missionario della Consolata a Catrimani significa valorizzare quella gente, con le loro convinzioni, la loro cultura ”. Dom Evaristo Spengler ha sottolineato che “credono in Dio, un Dio che si rivela in modo diverso, ma iniziano a dialogare con noi”, riconoscendo la grandezza di un Dio che è riuscito a guarire l’indigeno Sorino.

Un dialogo che, secondo il vescovo di Roraima, “è molto importante anche per noi per conoscere come Dio si rivela in tanti modi. Dio si rivela nel passato, Dio si rivela nel presente”, sottolineando che “la piena rivelazione è con Gesù Cristo, ma noi siamo capaci di dialogare con coloro che hanno un'altra forma di presenza divina nella loro vita”.

Roraima, una Chiesa con una storia sinodale

Il vescovo ha sottolineato che “ la Chiesa di Roraima ha una storia molto sinodale , è un cammino insieme al vescovo, con i sacerdoti, i missionari e il popolo di Dio, tutti i laici”. Secondo Dom Evaristo Spengler, “questa apertura a camminare insieme dà anche un'apertura verso culture diverse”, riferendo dell'esistenza di 12 popoli indigeni a Roraima, i più numerosi sono gli Yanomami, i Macuxi e i Wapichana, molti dei quali battezzati, con catechisti e ministri della Parola.

Dom Evaristo Spengler ha detto che “tra gli Yanomami era diverso, è un dialogo interculturale, interreligioso, perché la presenza di Dio è forte nella loro vita, e noi dobbiamo ascoltarli, è Dio che si è rivelato nel passato, ha visto il sofferenza del suo popolo, è sceso per liberarlo, e oggi ascolta questa gente in modi diversi . Si rivela anche con segni diversi, ma il segno dell'aggregazione, dell'unità, per noi in questo momento, è il segno di questo miracolo che accade all’indigeno Sorino, operato da Dio attraverso san Giuseppe Allamano”.

 

sabato 19 ottobre 2024

IL NOME DEL MISTERO

 




 

Paolo Cugini

Lo abbiamo sempre chiamato così: Dio. Sono secoli, millenni che il nome Dio risolve i problemi. Tutto ciò che non è possibile spiegare razionalmente o ragionevolmente può essere trasferito immediatamente alla parola Dio. Tutto ciò che di misterioso si è presentato nei secoli all’essere umano è stato risolto facendo appello a questa semplice parola: Dio. Quando gli eventi sono misteriosi, incomprensibili, difficili da spiegare, allora non ci resta altro che rifugiarci in Dio. Accade così anche oggi. Invochiamo Dio affinché ci aiuti in una determinata situazione della nostra vita divenuta complicata. Dio è un nome che se è vero, come vedremo, appartiene all’ambito religioso, ma è altrettanto vero che è sulla bocca di tante persone che non s’identificano con una specifica religione. È un aspetto così normale e spontaneo invocare il nome di Dio che, qualche filosofo, è arrivato a sostenere che è una idea innata, che troviamo dentro di noi al momento della nascita. Può darsi, anche, che a forza di pronunciare il nome di Dio da migliaia di anni, sia divenuto qualcosa di talmente presente alla nostra coscienza da renderlo reale.

Non c’è solamente, comunque, un’esperienza esterna di ciò che è misterioso che ci spinge a invocare Dio. Ci sono anche percorsi interiori dell’animo umano, che sperimenta la percezione di una realtà che non può essere classificata con i soliti criteri che mettiamo in atto nella vita quotidiana. Accade, per esempio, quando la malattia passa vicino a persone che amiamo e che ci spingono ad invocare quella forza che sembra essere capace di intervenire nella realtà modificandone l’orizzonte. Sono gli eventi estremi che ci spingono a pensare che esita una forza amica che può sistemare le cose, una forza nell’universo che ci conosce, sa cosa pensiamo e cosa sentiamo. Questa forza la chiamiamo Dio perché è il nome che abbiamo trovato nella nostra cultura e che viene utilizzato proprio in questi casi.

Il problema è che questo nome attraverso i secoli ha subito un tale rivestimento di significati da non riuscire più a coglierne l’essenza. Mi chiedo allora: è possibile dire Dio senza Dio? Sembra un gioco di parole, ma esprime una realtà molto profonda. È possibile provare a dire che cosa esprime il contenuto della parola dio mettendo da parte ciò che di Dio dicono le religioni?  C’è una forza nell’universo che, come tale, è immanente, cioè non è nel cielo così come l’hanno pensato gli antichi. Il cielo, di fatto, appartiene alla realtà immanente, perché fa parte dell’universo. è possibile dire Dio senza fare ricorso alla dimensione trascendente? Può sembrare blasfema una simile operazione anche perché da sempre Dio è stato pensato in questo modo: un essere trascendente che abita il cielo. Famose sono le parole di Aristotele che arriva a definire Dio come la causa di tutto, il motore immobile, che muove il mondo con la forza di attrazione. Un Dio, quello di Aristotele, così fuori dal mondo e dalla prospettiva immanente, da non poter pensare ciò che a lui è inferiore e da essere considerato come pensiero di pensiero. Interessante è notare che, proprio questa struttura filosofica, che è arrivata ad elaborare una concezione di Dio così mostruosa, è stata utilizzata dalla Chiesa cattolica per definire in modo sistematico i contenuti della propria esperienza di Dio: san Tommaso docet.

Ancora. È possibile dire Dio sganciandolo dalla prospettiva metafisica elaborata dalla filosofia greca? C’è un desiderio di liberazione, il desiderio, cioè, di liberare Dio dalla prigione dell’essere. Solo così, forse, è possibile iniziare una ricerca che riesca non tanto a dare un nome, ma un contenuto a quelle esperienze che possiamo definire spirituali, che vengono immediatamente associate ad una religione e, in questo modo, interpretata dai sistemi di concetti messi in atto da secoli. Per questo tipo di ricerca non ci si può affidare ai libri di teologia, ma a quelli di mistica e di spiritualità, anche se anche questi possono essere contaminati negativamente dalle scuole di pensiero teologico dell’epoca in cui sono stati scritti. E se andassimo da soli alla ricerca del senso di Dio? E se provassimo a liberarci in un colpo di tutti gli scaffali di libri che parlano di lui e provare a dire ciò che percepiamo con parole nostre, senza paura di essere giudicati? Solo a pensarci mi dà un brivido intellettuale spaventoso.

 

martedì 15 ottobre 2024

Il cardinale Steiner non vede alcuna difficoltà nell'ordinazione di diaconesse e uomini sposati in alcune realtà

 



Testo di don Luis Modino, prete spagnolo, giornalista che svolge il Ministero nell’arcidiocesi di Manaus.

Traduzione: Paolo Cugini

 

L'arcivescovo di Manaus, cardinale Leonardo Steiner, era presente martedì 15 ottobre nella Sala Stampa del Vaticano, rispondendo ad alcune domande. Tra questi la situazione climatica in Amazzonia, il ruolo delle donne e la possibile ordinazione di diaconesse e uomini sposati, e come si vive la sinodalità nella Chiesa di Manaus e in Amazzonia.

 

La sinodalità ha a che fare con l’ambiente

Di fronte alla situazione climatica che sta vivendo l’Amazzonia, punita per il secondo anno con una siccità estrema, l’arcivescovo di Manaus ha affermato che “la sinodalità ha a che fare con l’ambiente”. Riconoscendo che questo non verrà affrontato nella Seconda Sessione dell’Assemblea sinodale, ha affermato che “se guardiamo a Querida Amazonia, Papa Francesco ci offre un’ermeneutica della totalità che è tremendamente sinodale. Cultura, questioni sociali, questioni ambientali e vita ecclesiastica. Tutto ciò costituisce una totalità ermeneutica”.

In questo senso, ha evidenziato il cardinale, “affrontiamo la questione dell'ambiente nella nostra arcidiocesi di Manaus, ma anche nelle altre diocesi che compongono la nostra Regione Nord1”. Ha denunciato il momento drammatico che sta vivendo l’Amazzonia, dettagliando alcune situazioni che rendono difficile l’accesso alle comunità e al lavoro pastorale in esse. Una situazione climatica che colpisce altre regioni del Brasile e che diviene drammatica a causa della deforestazione, “quest’aggressione all’ambiente in Amazzonia, attraverso l’attività mineraria, l’inquinamento delle acque dovuto al mercurio proveniente dalle miniere, la pesca predatore."

Tutto ciò significa che noi come Chiesa abbiamo l’obbligo di raggiungere le comunità, ma anche di sensibilizzare la società nella nostra regione alle questioni climatiche e ambientali”, ha affermato. L'arcivescovo spiega che la Chiesa di Manaus sta portando rifornimenti e acqua alle comunità, quasi una contraddizione in una regione con tanta acqua, che oggi non è più potabile.




Le donne nella Chiesa amazzonica

Il ruolo delle donne in Amazzonia è fondamentale. In una regione dove le comunità hanno vissuto per più di 100 anni senza la presenza del sacerdote, “e le comunità hanno continuato ad essere vive, pregando, celebrando e avendo i loro modi di pregare le donne hanno portato avanti le comunità e oggi portano avanti le nostre comunità”.

Molte delle nostre donne sono vere diaconesse, senza aver ricevuto l'imposizione delle mani. E queste diaconesse, vorremmo chiamarle diaconesse, ma per evitare confusione con il ministero ordinato, non abbiamo ancora trovato una parola adatta” ha affermato l'arcivescovo di Manaus. Sempre Steiner ha affermato che: «è ammirevole quanto le donne siano responsabili della nostra Chiesa, è ammirevole. Molte di loro sono a capo delle comunità, sono leader della Parola di Dio, riuniscono le comunità per un momento di preghiera”. Un lavoro che ha portato il cardinale ad affermare che “la nostra Chiesa non sarebbe la Chiesa che è senza la presenza delle donne”.

Riguardo all'ordinazione delle diaconesse, l'arcivescovo di Manaus ha ricordato l'esistenza di una commissione che studia storicamente questa questione. Si è chiesto: «se vediamo che questo è stato storicamente presente nella Chiesa, perché non ripristinare il diaconato femminile ordinato se esisteva già nella storia della Chiesa, come è stato fatto dopo il Concilio restaurando il diaconato permanente per gli uomini?».

Dal Sinodo dell’Amazzonia al Sinodo della sinodalità

L'Arcivescovo di Manaus ha riflettuto sulla realtà dell'arcidiocesi, segnata dalla presenza indigena, di migranti, con comunità indigene che hanno un modo diverso di strutturarsi, una realtà di cui tenere conto. Parlando della continuità tra il Sinodo per l’Amazzonia e quello attuale, ha affermato che “il Sinodo per l’Amazzonia ha aperto la possibilità di avere un Sinodo di sinodalità”, sottolineando la partecipazione di oltre 80mila persone alla preparazione del Sinodo per l’Amazzonia. La sinodalità è una strada senza ritorno perché tutti entriamo in un movimento di essere Chiesa. Nell'Assemblea sinodale, il cardinale ha affermato di voler condividere l'esperienza della partecipazione di tutti, una ricchezza enorme che abbiamo, ricordando che questo cammino è presente da più di 50 anni in Amazzonia. Una pratica presente nell'arcidiocesi di Manaus, dove più di mille comunità vengono consultate per vedere come essere una Chiesa più missionaria. Una Chiesa dove “i laici sono entusiasti di poter essere missionari”.



Possibilità di ordinare uomini sposati in alcune realtà

Riguardo all'ordinazione degli uomini sposati, ha detto che nell'arcidiocesi di Manaus ci sono più di mille comunità e 172 sacerdoti, per cui non è possibile seguire la vita sacramentale delle comunità. Dopo aver affermato che il Santo Padre non ha chiuso la questione, ha sottolineato che “per certe realtà non sarebbe una difficoltà ammettere all'ordinazione uomini sposati”. Alla fine dell’intervento il cardinal Steiner ha chiesto di continuare a dialogare, guardando alla comunità, che è la ragione dell'esistenza della Chiesa.