Testo di: Raniero Cantalamessa
sintesi: Paolo Cugini
Al momento in cui la fede cristiana incontra l'ellenismo ed entra in dialogo con la filosofia greca, la credenza nella divinità di Cristo è un dato pacifico in seno alla comunità cristiana. Occorre indagare non sull'origine della fede nella divinità di Cristo, ma sulla reazione a tale fede. Con la sua sola esistenza, tale reazione è la migliore prova storica del fatto che la Chiesa in questa epoca professa universalmente la propria fede in Cristo come Dio.
Non si tratta di una prova puramente generica e deduttiva. Tutto il discorso veritiero di Celso è una testimonianza chiara della pacifica fede dei cristiani nella divinità di Cristo. Una fede tanto sicura di sé, che il filosofo pagano ne è perfino indispettito. Questa fede aveva da sempre il suo centro propulsore nell'esperienza di salvezza e nel culto della Comunità. Il minimo che si deve dire è che il dogma della divinità di Cristo non è il risultato dell'incontro e magari della polemica con l'ellenismo, ma che preesiste adesso.
L'affermazione della divinità di Cristo non è frutto di astratta speculazione a conclusione di un processo intellettuale, ma è espressione del culto e della fede della Chiesa. E proprio questa fede vissuta comunitariamente, che costituisce il retroterra e la pedana di lancio dalla quale i pensatori cristiani muovono alla conquista intellettuale dell'ambiente, alla fede in Cristo. Quello, dunque, che entra in gioco nell'incontro con l'ellenismo e che eventualmente si può dire che dipende da esso, non è il dato primordiale della fede nella divinità di Cristo, ma è il modo categoriale con cui è espresso e con cui è difeso, in una parola, la sua teologizzazione. Qualunque cosa Giustino dica, o non dica circa la divinità di Cristo, non bisogna mai dimenticare ciò che egli ripete per almeno 8 volte, che cioè Cristo è un Dio adorato dai cristiani.
Le più antiche testimonianze sulla reazione pagana contro la divinità di Cristo le troviamo negli apologisti stessi, ma soprattutto in Celso, cui più tardi si aggiungerà la voce di Porfirio e di qualche altro pensatore pagano minore. Dall'insieme delle testimonianze emergono due tipi di obiezione. La prima è di tipo metafisico. Mentre la seconda di tipo etico. Schematizzando i dati, potremmo dire che la prima, l'obiezione metafisica si concentra di preferenza intorno al fatto della nascita, l'incarnazione. Mentre l'obiezione etica si concentra sul fatto della morte, cioè la stoltezza della Croce. Una riflette lo scandalo intellettuale dell'Ellenismo di fronte alla fede cristiana, l'altra lo scandalo morale. L'impatto della predicazione della Croce sulla visione etica dei greci, tutta dominata dal valore supremo della Sapienza, faceva ritenere ad essi immorale, oltre che stolto, parlare di un Dio crocifisso tra gente perbene.
L'obiezione della trascendenza di Dio.
L'obiezione metafisica contro la divinità di Cristo prende corpo in seno all'enigma a partire da due concetti strettamente collegati tra loro, ma distinti: Trascendenza di Dio e contingenza storica di Cristo. La critica al dogma della divinità di Cristo in base all'idea di trascendenza, occupa il cuore della polemica di Celso contro il cristianesimo. Il concetto di fondo è l'impossibilità di un intervento reale e personale di Dio nel mondo e nella storia. Celso si sforza di dimostrare che un tale intervento è assurdo. Per fare ciò, egli fa appello a tutte le supreme certezze della grecità. Dimenticando perfino la tradizionale rivalità e le profonde divergenze di scuola esistenti tra stoici e platonici. Mentre, infatti, l'impossibilità da parte di Dio di intervenire realmente e direttamente nelle cose del mondo costituisce il tema platonico per eccellenza, l'impossibilità da parte del cosmo ad accogliere un simile intervento divino dall'esterno, sviluppa un tema tipicamente stoico.
Se, come affermano i cristiani, Dio in persona discende verso gli uomini, ciò argomenta Celso, comporta un cambiamento nelle cose di quaggiù. Ma cambiare anche la più piccola delle cose di quaggiù significa sovvertire e distruggere l'universo. Partendo dalla concezione stoica di un universo in sé, chiuso e immutabile nel suo ordine, che non ammette interventi dall'esterno, perché nulla esiste fuori di esso, Celso ha colto con singolare chiarezza, un aspetto dei più profondi della rivoluzione mentale portata dal cristianesimo. Il mondo dei greci ha scritto il teologo Brehier è un mondo, per così dire, senza storia. Un ordine eterno in cui il tempo non ha alcuna efficacia, sia che lasci l'ordine sempre identico a se stesso, sia che generi una successione di eventi che tornano sempre al punto di partenza, secondo mutamenti ciclici che si ripetono indefinitamente. L'idea inversa, che cioè vi sono nella realtà cambiamenti radicali delle iniziative assolute, delle vere invenzioni, in una parola, che vi sia una storia e un progresso nel senso generale del termine, una simile idea fu impossibile prima che il cristianesimo non venisse a sconvolgere il cosmo degli elleni. Tra queste, iniziative divine che producono cambiamenti radicali e che creano una novità, dando all'universo un volto drammatico, l'incarnazione, insieme con la creazione e la parusia costituisce uno dei momenti salienti. Il rilievo maggiore, il platonico Celso lo dà all'altro aspetto del problema, quello dell'impossibilità di Dio a intervenire personalmente nelle cose del mondo. A causa della sua trascendenza, in base a ciò, la divinità di Cristo è impugnata in quanto legata al fatto dell'incarnazione. È l'umanità di Cristo che rende filosoficamente impossibile la sua divinità. Partendo dal celebre dogma platonico nullus deus miscetur hominibus, Celso trova addirittura scandalosa l'affermazione che un Dio, o il figlio di Dio sia disceso sulla terra. L'incarnazione distrugge infatti, la prerogativa divina dell'immutabilità e comporta una degradazione. Distrugge la trascendenza perché, se Dio in persona discende tra gli uomini, egli abbandona il suo trono. Su questo punto Celso è il portavoce di tutta la più genuina tradizione greco platonica che accompagna il cristianesimo in tutta la sua fase ellenistica.
“No, non siamo pazzi o greci. Esclama Taziano. Ne preferiamo sciocchezze quando diciamo che Dio è nato in forma umana.” Il motivo reale di tanto scandalo era il dualismo platonico di materie e spirito, che unito all'essenza dell'idea di creazione dal nulla, portava a considerare ogni contatto con la realtà corporea dell'uomo sempre e necessariamente inquinate per Dio. Secondo Celso, quand'anche Cristo fosse stato Dio, dopo la risurrezione non avrebbe più potuto riprendere il suo posto accanto al Padre, perché il suo spirito era ormai macchiato dalla natura del corpo. L'orrore della Natività, cioè la ripugnanza per la fisiologia della nascita umana, che è il riflesso del dualismo metafisico sul piano esistenziale, affiora ogni volta che un filosofo pagano si trova a parlare dell'incarnazione. Esso era tanto forte che contagiò molti spiriti colti tra gli stessi cristiani, dando luogo al grande fenomeno dello gnosticismo. Mentre però in campo pagano lo scandalo è risolto negando che Cristo fosse Dio, in campo cristiano è risolto dagli gnostici negando che fosse uomo. Doceti.
L’obiezione della contingenza storica e dell’immanenza di Cristo.
Quando c'è il senso muove il suo attacco contro il cristianesimo Giustino ha già portato a termine quella grandiosa operazione intellettuale che è l'identificazione del Gesù storico con il principio universale e metafisico del logos. Celso e a conoscenza dell'operazione. Ma questo non è sufficiente a far cadere la sua critica indignata. “Celso accusa cristiani di somigliare ai sofisti quando dicono che il figlio di Dio è il logos in persona e rincara l'accusa aggiungendo che dopo aver proclamato che il logos è il figlio di Dio noi presentiamo il luogo del luogo del logos puro e Santo un uomo ignominiosamente flagellato e condotto al supplizio” (Origene). Appare in queste parole tutto lo scandalo intellettuale del greco che vede infranta la più intangibile e sacra delle barriere quella tra il mondo di lassù e il mondo di quaggiù tra il mondo dell'universale e dell'eterno è quello del contingente e del divenire: tra il mondo dell'assoluto e il mondo della storia. Il logos da principio universale di intelligibilità del cosmo si trova ad essere un uomo nato vissuto e morto in un certo momento della storia e in un certo punto della terra. Qui si esprime l'irrilevanza religiosa e ontologica della storia per il greco, l'impossibilità di concepire storicamente la rivelazione e quindi il logo stesso. Dio e la storia non possono essere pensati insieme, formano un connubio innaturale. Da qui deriva la difficoltà di riconoscere come logos e come Dio un uomo immerso tutto intero nella storia la cui esistenza era tutta quanta definibile dentro coordinate geografiche e cronologiche. “ figlio di Dio un uomo vissuto pochi anni fa uno di ieri o avanti ieri” (Celso).
Per comprendere l'istanza di fondo da cui nasce questa reazione del paganesimo colto bisogna partire da quella specie di fossato di protezione che la filosofia religiosa del tempo aveva scavato intorno alla trascendenza di Dio con la cosiddetta teologia negativa. Dio è incomprensibile invisibile impassibile non ha principio non ha nome non ha luogo non ha forma. Come giustificare quindi la divinità di una persona che con la sua positività storica e umana era esattamente agli antipodi di queste immagini di Dio ottenuta mediante la via negativa? Tutta la teologia negativa in Gesù diventa positiva. Egli era visibile, passibile, aveva un nome, un principio, un tempo, un luogo, una forma. In Cristo si intersecano quei due piani che nel pensiero greco erano rimasti sovrapposti e divisi: quello della trascendenza e quello dell'immanenza. Il concetto greco di spazio come ricettacolo, ne esce radicalmente trasformato, al punto che in un nuovo senso, Cristo appare lui stesso come lo spazio o il luogo dell'incontro e dello scambio tra Dio e l'uomo il punto di intersezione tra trascendenza immanenza o come si dirà in un linguaggio più evoluto il mediatore. La conseguenza più vistosa è che l'idea di trascendenza da categoria esclusivamente teologica, diventa anche categoria cristologica. Con essa, infatti, non si vuole affermare solamente la trascendenza infinita di Dio rispetto all'uomo ma anche la trascendenza di Cristo rispetto all'umanità intera al cosmo e alla storia. Tutto questo però non apparirà chiaro alla stessa teologia cristiana che in seguito alla definizione di Nicea per opera soprattutto di Atanasio.
La risposta cristiana
Giustino aveva capito che l'attacco del mondo pagano poteva venire sul piano filosofico e perché l'ostacolo alla fede in Cristo per i greci era sulla contingenza storica il suo essere nato da Maria poco più di un secolo e mezzo prima. Egli si era preoccupato di dare alla figura di Cristo quella base di universalità e di assolutezza che gli rivestiva già nella fede della comunità e che Paolo e Giovanni avevano espresso con categorie o almeno in un quadro del pensiero giudaico. E esattamente quello che Giustino fece mediante l'identificazione chiara e programmatica del Gesù nato da Maria con il principio universale del logos e in posizione subordinata con la realtà del pneuma. “Il logos primogenito di Dio senza commercio carnale è nato come nostro maestro Gesù Cristo è stato crocifisso è morto e risorto ed è asceso al cielo”. Quella operata dai primi padri greci è stata un'operazione difficile perché christificava di colpo tutto il reale e tutto il reale aveva per i greci la sua intelligibilità dal logos. Criticava in pari tempo tutta la storia grazie all'idea delle sementi del verbo che convogliava verso Cristo tutto il cammino ideale dell'umanità prima della sua venuta, con lo stesso dinamismo con cui la parte tende al tutto, il logos parziale tende al logos integrale che è il Cristo. I cristiani avevano preso in prestito dai greci un logos principio cosmico universale e ora ripresentavano ad essi un logos personale persona storica e figlio primogenito di Dio. L'identificazione di Cristo con il logos, infatti, portava spontaneamente sotto l'influsso dei testi neotestamentari all'identificazione del Logos con il figlio di Dio. Ehi un fatto questo della massima importanza perché poneva le basi della spiegazione della divinità di Cristo mediante il concetto della generazione (figlio) razionale (logos), che formerà in seguito il cardine di tutta la teologia trinitaria.
Il subordinazionismo cristologico
Nell'edificio della cristologia che così si delineava si inserì un elemento di ellenismo che ritarderà la soluzione del problema cristologico fino a Nicea. Si tratta della valenza prevalentemente cosmologo che il logos aveva nella speculazione greca. Questo portò con sé un inevitabile calo della tensione soteriologica del messaggio cristiano a vantaggio della sua dimensione cosmologica e rivelatrice. L'attrazione reciproca tra logos e creazione tende in forza dell'identificazione operata tra i concetti di logos è figlio di Dio allegare la generazione del figlio alla creazione del mondo intaccandone così il carattere necessario ed eterno. Il verbo tipico che esprime la funzione del logos in questo contesto è kosmein: ordinare e produrre il cosmo. Il passo di Pr 8,22 “Il signore mi ha creato come principio delle sue vie per le sue opere” Ehi con l'enorme sviluppo che prende a partire da Giustino fino agli ariani serve ad ammantare questa dottrina dell'autorità indiscussa della Bibbia. Origine non ha dubbi che quello che i greci hanno detto del logos come intermediario della creazione non solo concorda con la legge ma anche con il Vangelo. Nella speculazione filosofica del tempo c'era una figura che era destinata ad esercitare un'irresistibile attrazione sul logos figlio di Dio dei cristiani il cosiddetto Dio secondo. Fu una specie di risucchio dell'ellenismo dal quale il pensiero cristiano fece non poca fatica a liberarsi. La figura del secondo Dio o Dio di secondo rango praticamente nasce nelle pagine del Timeo anche se il nome è desunto da una fonte pseudo platonica. Il platonismo di mezzo si impadronì di essa dandole un enorme sviluppo e identificandola volta a volta con il mondo intellegibile, con il logos, con il demiurgo platonico e con l'anima del mondo. Più tardi essa viene a costituire la seconda impostosi della triade neoplatonica. Si tratta di un'entità metafisica che funge da intermediario tra Dio e il mondo materiale, in vista della sua creazione, o del suo ordinamento. Tendenzialmente, ha lo scopo di risparmiare al Dio trascendente il contatto degradante con il mondo. Filone mette in rilievo l'inferiorità ontologica rispetto al padre dell'universo, usando per lui il titolo di Theos (senza articolo) e riservando invece l'espressione ho theos (con l’articolo) al solo Dio supremo. Questi è veramente Dio, l'altro è solamente divino. Celso, riferendosi alla stessa entità metafisica del deutero Theos, Ehi lo definisce un semidio e dice apertamente che da essa hanno tratto spunto i cristiani nel definire Cristo figlio di Dio. La ragione ultima dell'inferiorità di questo Dio intermediario rispetto al padre-destinata a giocare in seguito un ruolo decisivo nelle discussioni ecclesiastiche-è formulata chiaramente da Tolomeo nella sua lettera a Flora: “questo Dio sarà inferiore al Dio perfetto… in quanto è generato e non ingenerato”.
Gli autori cristiani commisero l'imprudenza di servirsi di questa figura intermediaria per presentare agli interlocutori greci la persona del figlio di Dio, pensando di facilitare ad essi, in tal modo, la fede nella divinità di Cristo. Il primo a gettare un ponte tra le due realtà fu Giustino, che parla del figlio che occupa “il secondo posto dopo il Padre”, seguito da Clemente Alessandrino entrambi indipendenza dalla fonte pseudo platonica. In Origene il titolo di deutero Theos occupa un posto di particolare rilievo e condiziona senza dubbio, il suo subordinazionismo cristologico, anche se lui stesso che prepara il superamento di tale subordinazionismo, mediante il concetto della generazione eterna del figlio, al quale ci si ispirerà, in seguito, nella lotta contro l'arianesimo.
L’arianesimo e la catarsi cristiana dell’ellenismo
Sullo sfondo teologico ora delineato, si situa la crisi Ariana. Nel suo aspetto positivo (la verità dell’eresia) Ehi essa consiste nell'aver costretto la chiesa ad aprire gli occhi su una situazione di incertezza e di equivoco, che si trascinava da tempo nel cuore della sua teologia. Nel suo aspetto negativo, essa appare un tentativo di canonizzare quello che era semplicemente un ritardo della teologia rispetto alla fede, erigendo a dogma esplicito la credenza in Cristo come Dio di secondo rango. L'obiezione metafisica dell'ellenismo alla divinità di Cristo rivive dell'arianesimo e tocca il suo apogeo, proprio in quanto in esso è portata fino alle ultime conseguenze l'identificazione del figlio di Dio con il deutero Theos medioplatonico. Quello che di nuovo ario apporta nella discussione e l'utilizzazione massicce dell'argomento tratto dall'opposizione tra il padre e il figlio, Per stabilire la diversità dell'essenza tra i due. Un argomento maturato in seno all’ellenismo fin da Platone ma che solo ora viene esplicitamente utilizzato come obiezione alla divinità di Cristo. Tutto questo è stato studiato e non è cosa nuova. L’arianesimo non è comprensibile se non come approdo dell'impostazione medio platonica del problema cristologico iniziata dagli apologisti. Ario non è riuscito a superare la figura mitica del deutero Theos, Ehi ma la consacrata; Ehi non è riuscito a tracciare una linea di demarcazione unica sull'essere, ma ha mantenuto le due linee e, con ciò, la tripartizione dell'essere in: essere trascendente, essere creato e essere intermediario. La famosa espressione Ariana: “c'era un tempo in cui non c’era” ripresa dalla discussione medio platonica, dove essa era riferita al cosmo-figlio Di Dio del Timeo, cioè, in sostanza, al Dio secondo. Il titolo tecnico di Dio secondo continua ad essere utilizzato per il Figlio da Eusebio di Cesarea, vicinissimo ad Ario, in dipendenza sì da Origene, ma anche al medioplatonismo.
Da Attanasio veniamo sapere che gli ariani avevano sposato in pieno l'idea platonica del figlio come ministro, o intermediario, che crea il mondo guardando e attingendo i modelli nel padre. E ciò non in base alle indicazioni della Bibbia, quanto piuttosto per la motivazione platonica che Dio non può creare direttamente il mondo, ma ha bisogno di un intermediario che gli eviti il contatto degradante con la materia. Atanasio non ha torto quando conclude: “queste affermazioni intorno al logos di Dio non sono proprie della dottrina cristiana, ma di quella dei greci”.
Non è con l'arianesimo che avviene la rottura dello schema medio platonico, ma con Nicea. E la teologia dell’homousios, del gentium non factus, che rimuove per sempre il principale ostacolo dell'ellenismo al riconoscimento della piena divinità di Cristo e opera la catarsi cristiana dell'universo metafisico dei greci. Con tale teologia, una sola linea di demarcazione tracciata sulla verticale dell'essere e questa linea non divide il Figlio dal Padre, ma il Figlio dalle creature. “Consostanziale (homousios) con il Padre sta a significare che il Figlio di Dio non ha alcuna somiglianza con le creature fatte, ma che è simile in tutto al Padre che lo ha generato e che non è da altra ipostasi o sostanza che da quella del Padre” (Eusebio di Cesarea).
Lo stacco dalle creature è tanto forte che occorrerà un altro consiglio, quello di Calcedonia, per riportare un più giusto equilibrio, in una visione più ampia, nella quale il Cristo apparirà in tutto simile a noi, oltre che in tutto simile al Padre: consostanziale con il Padre e consostanziale con noi.
L’influsso dell’argomento soteriologico nella definizione della divinità di Cristo
Attanasio sposta l'interesse della teologia dal cosmo all'uomo, dalla cosmologia alla soteriologia, Atanasio valorizza i risultati elaborati nella lunga battaglia contro lo gnosticismo, battaglia che aveva portato a concentrarsi sulla storia della salvezza e della redenzione umana. Egli dà a tutta la teologia una colorazione antropologica e soteriologica. Cristo non si colloca più, come nell'epoca degli apologisti, tra Dio e il cosmo, ma piuttosto tra Dio e l'uomo. Che Cristo sia mediatore non significa che egli sta tra Dio e l'uomo ma che unisce Dio e l'uomo. In lui Dio si fa uomo e l'uomo si fa Dio, cioè viene divinizzato. Il cosmo non scompare dall'orizzonte della cristologia, ma essa è in funzione dell'uomo e della sua salvezza, non viceversa lo schema nuovo del reale non sarà più quello greco: Dio- universo-uomo, ma sarà quello biblico: Dio-uomo-universo. L'universo è per l'uomo, non l'uomo per l'universo.
Secondo Atanasio la salvezza esige che l'uomo non sia assunto da un intermediario qualsiasi, o da un qualsiasi essere, ma che sia assunto da Dio e che sia unito a Dio: “se il Figlio è una creatura l'uomo rimarrebbe mortale, non essendo unito a Dio… l'uomo non sarebbe divinizzato se il verbo che divenne carne non fosse della stessa natura del Padre”.
L'incidenza dell'esperienza di salvezza nell'evoluzione del dogma della divinità di Cristo è indubbia. Sarebbe però, errato concepire tale incidenza a senso unico. Se è vero che l'esperienza di Cristo come Salvatore e divinizzato store influisce sul processo teologico di chiarificazione della sua divinità, è anche vero che il processo teologico contribuisce a plasmare e rendere cosciente l'esperienza di salvezza.
Definire il figlio con sostanziale con il padre significava collocarlo a un livello tale per cui nulla assolutamente poteva rimanere fuori dal suo raggio d'azione. Significava stabilire il significato o la rilevanza universale della persona di Cristo, non solo sul piano ontologico, ma anche sul piano soteriologico.
“L'onnipotente Santissimo verbo del padre, penetrando tutte le cose e arrivando ovunque con la sua forza da luce a ogni realtà è tutto contiene abbraccia in sé stesso. Non c'è essere alcuno che si sottragga al suo domino. Tutte le cose da lui ricevono interamente la vita e da lui sono mantenute in essa: ehm le creature singole nella loro individualità e l'universo creato nella sua totalità” (Atanasio).
In Cristo e l'essere è il significato di Dio che si fa presente all'uomo e al mondo, non un intermediario: questo è il senso profondo del consustanziale di Nicea.
Il problema della preesistenza di Cristo